Violenza e aggressioni a Brescia: «Ma non chiamatele baby gang»

La Loggia ha affrontato il tema con l’Università degli Studi di Brescia. Muchetti: «La chiave deve essere multidisciplinare»
La Loggia ha istituito un tavolo sul disagio giovanile - © www.giornaledibrescia.it
La Loggia ha istituito un tavolo sul disagio giovanile - © www.giornaledibrescia.it
AA

Una rissa tra due giovani in piazza Vittoria con il tifo attorno. Insulti, minacce e auto danneggiate in piazzale Arnaldo. Urla di rabbia e una lite furibonda dopo aver lanciato e rotto bottiglie di birra (in vetro), sventolate per destare paura o ottenere qualcosa. Sono alcune scene di una Brescia che negli ultimi due anni spesso si sveglia con notizie di cronaca su minorenni (o under 20) descritti come violenti, aggressivi o autori di piccoli reati. Episodi spesso classificati sotto la definizione di «baby gang».

Cosa sta accadendo? È solo una maggiore attenzione mediatica a certi fenomeni oppure davvero alcuni reati sono in aumento? E, soprattutto, sono tutte baby gang o il tema della violenza minorile recente è qualcosa di può profondo e difficilmente catalogabile? Ascoltando chi «vive e studia la strada» la risposta alla prima ipotesi è «no»: non si tratta di baby gang, ossia gruppi criminali censiti, che hanno un’organizzazione e un capo, una sigla e riferimenti culturali ben precisi. Per la seconda opzione, la risposta è al contrario un «sì»: è vero, c’è una microcriminalità che trova riscontro nei dati e nel lavoro delle forze dell’ordine e che a Brescia, sfogliando i numeri, «è in linea con il trend nazionale». Ma ci sono anche tante situazioni di disagio giovanile che, troppo spesso, restano inascoltate, non trovano una «rete salvagente», si trasformano in rabbia. E fanno paura.

L’identikit

A porsi queste domande per «comprendere la situazione così da trovare la chiave giusta per affrontarla», come spiega l’assessore alla Sicurezza Valter Muchetti, è stata la Loggia. Che ha messo a disposizione tutti i dati dei servizi sociali e ha coinvolto la Polizia locale e il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Brescia per verificare in primis «se esiste un’emergenza» e, poi, per contestualizzare episodi e approntare contromisure interdisciplinari.

Cosa è emerso? Una sorta di identikit basata su un campione di 80 minorenni. Si tratta prevalentemente di maschi (83%), di provenienza geografica diversa, la metà esatta italiani: il 50% è residente in città, l’altro 50 in provincia, «principalmente di etnia egiziana o nordafricana» e «in misura minore sono minori non accompagnati, fenomeno in aumento». Nella maggior parte dei casi si riconoscono da lontano per il loro abbigliamento: tuta, borsello firmato, atteggiamento da bulli, i cosiddetti «maranza» (da mar, marocchino, e zanza, ossia furfante in gergo milanese).

L’obiettivo è chiaro: fare di tutto per essere visti. E, infatti, spesso atteggiamenti, aggressioni o furti messi a segno finiscono spiattellati sui social, dove si vantano di fronte a un pubblico potenzialmente infinito. Qualcuno, se gli offri una sigaretta e ti metti a fare due chiacchiere, lo dice chiaramente: «Io non ho niente da perdere. A casa sono solo, qui faccio parte di un gruppo: ci vediamo e insieme facciamo casino, siamo invincibili». Così si crea un’identità, così «non finisci a essere nessuno, perché tanto di noi non importa nulla». Vale per tutti, non è una questione di codice postale. Perché, in fondo, si è sempre alla periferia di qualcosa.

Le prospettive

I dati raccolti dai diversi circuiti non sono sempre omogenei, ma costituiscono una base di partenza. Guardando in particolare quelli relativi al periodo che va da settembre 2023 a marzo 2024 (quando la Centrale operativa è intervenuta 176 volte, identificando 60 minori), i reati maggiori hanno riguardato oltraggio, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale, furto, rapina, invasione di terreni ed edifici, percosse e lesioni. Se si guarda ai minori indagati inseriti all’interno del circuito penale minorile in carico ai Servizi sociali, si scopre che il 48% ha cittadinanza italiana, il 22% tunisina, il 19% marocchina. Nel 66% dei casi, invece, i giovani autori di reati sono italiani.

Soluzioni

«Queste non sono baby gang – spiega il professor Carlo Alberto Romano, che ha lavorato allo studio –: assistiamo al tentativo di riconquista degli spazi urbani, un modo per dire "il centro è anche nostro, anche noi possiamo arrivarci e farci sentire". C’è poi l’aspetto della deculturazione: non solo questi ragazzi hanno percorsi famigliari e scolastici difficili, fatti di abbandono, ma hanno spesso perso la cultura dei genitori senza avere acquisito quella della comunità in cui si trovano. Non hanno un’appartenenza, un’identità: per questo la cercano nel taglio di capelli, nell’abbigliamento o nel genere musicale». L’ultimo aspetto è che «hanno reciso il dialogo con gli adulti», di cui non si fidano.

Che fare, quindi? Muchetti non ha dubbi: «Serve proseguire con l’approccio multidisciplinare: il solo controllo e la sola repressione non risolvono nulla. La complessità del fenomeno di disagio e devianza giovanile chiama in causa tutti». Ma forse chiama in causa un pochino di più la «rete sociale».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato

Icona Newsletter

@Buongiorno Brescia

La newsletter del mattino, per iniziare la giornata sapendo che aria tira in città, provincia e non solo.