Trent’anni fa l’orrore di Srebrenica, genocidio che costò 8.732 morti

Foto e video non potranno mai raccontare la morte come la racconta l’odore. L’odore della decomposizione dei cadaveri, mista alla terra, al sangue, ad altri fluidi corporei, al fumo provocato dalle detonazioni. L’odore che ogni guerra porta con sé. Chi c’è stato, lo sa: Ucraina, Gaza, Sudan, Congo, Afghanistan... Sentii quell’odore quando vicino – ma, fortunatamente per me, non troppo – al campo profughi siriano dove mi trovavo, una donna mise mano alla cintura e si fece saltare: odore di carne maciullata mista a residui di esplosivo. Rimane per sempre nelle narici. Mano a mano che i cadaveri si accumulano, è sempre peggio. Uno, due, tre, 8.732.
Il massacro
Pensiamo a che cosa doveva essere l’odore di 8.732 uomini e ragazzi bosniaci musulmani (chiamati anche bosgnacchi), trucidati a Srebrenica, nella Bosnia orientale, dalle truppe serbe di Ratko Mladić, coadiuvate da vari gruppi paramilitari. Alcuni avevano nomi esotici, come le «tigri di Arkan», ma nient’altro erano se non criminali sanguinari. Separarono gli uomini dalle donne. Gli uomini vennero sterminati, le donne violentate e deportate.

Una settimana di orrore, che avvenne in una zona dichiarata protetta dalle Nazioni Unite. Ma i Caschi Blu lì presenti, invece di intervenire, si voltarono dall’altra parte. Fu così che una cittadina fino ad allora sconosciuta ai più, divenne tristemente famosa l’11 luglio 1995. Il suo nome si legò per sempre al peggior massacro in Europa dalla seconda guerra mondiale, riconosciuto poi come genocidio dal Tribunale dell’Aja per i crimini nell’ex Jugoslavia.
Il dopo-Tito
Perché è accaduto? La spiegazione rientra nella complessità che caratterizzò il decennio di guerre nella Jugoslavia. Ci vorrebbero pagine e pagine e forse ancora non si sarebbe esaustivi. Uno dei motivi – non il solo – è che la difficile situazione economica del post Tito richiedeva un capro espiatorio. E Srebrenica rappresentava un’anomalia: un’enclave a maggioranza musulmana in una parte di Bosnia «resa serba» quasi totalmente. Quell’anomalia doveva essere rimossa.

Ecco allora la costruzione del nemico anche nel linguaggio che ora diventava divisivo. Srebrenica doveva essere sacrificata sull’altare degli Accordi di Dayton che di lì a poco – il 21 novembre 1995 – avrebbero sancito ciò che di fatto era già avvenuto. La spartizione del Paese in due entità: la parte a maggioranza serba col nome di Republika Srpska, e la Repubblica di Bosnia ed Erzegovina. Confini territoriali che si tramutarono in confini etnici e religiosi in una popolazione che da sempre aveva vissuto insieme nella tolleranza reciproca.
La Giornata internazionale e le complicità
Il 23 maggio 2024, l’Onu ha approvato una risoluzione che istituisce l’11 luglio come Giornata Internazionale di commemorazione del genocidio di Srebrenica.
Un atto doveroso, ma che rischia di essere solo mero buonismo se non si fa luce sui fatti, se non si individuano le fosse comuni e si dà un nome a tutte le vittime, e se non si accertano le responsabilità. Perché se è vero che ci sono state 21 condanne, tra cui quelle di Ratko Mladić, Radovan Karadžić e Radislav Krstić, rimangono da individuare le complicità, ancora troppe le zone d’ombra. E poi c’è chi, come il governo della Republika Srpska, che continua a negare che a Srebrenica sia stato perpetrato un genocidio.

«Ogni atto di negazione non è solo un insulto morale alle vittime, ma anche una minaccia alla pace e alla stabilità perché la relativizzazione dei crimini prepara sempre il terreno per la loro ripetizione», afferma in una lettera indirizzata al mondo in occasione di questa trentesima commemorazione, il Rais al-Ulama, leader religioso della Comunità islamica della Bosnia-Erzegovina, Husein Kavazović. «Ecco perché la comunità internazionale non deve rimanere in silenzio di fronte a coloro che cercano di falsificare la storia e minare le fondamenta della giustizia. La verità non è un peso: è l’unica via verso un mondo più giusto e sicuro. Se impariamo la lezione, forse le vittime non saranno morte invano. Forse il loro sacrificio innocente illuminerà la strada verso un futuro migliore per tutti noi», conclude Kavazović.
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