Poco libere di scegliere i propri tempi: «Troppe part time per la famiglia»

Annalisa è impiegata in un’azienda bresciana e in questo periodo è in congedo di maternità. Ha 36 anni, un figlio di tre e una bimba di nove mesi, e vorrebbe chiedere il part time: «Quaranta ore sono troppe per gestire tutto e non voglio perdere i primi anni di vita dei miei figli. Guadagno comunque meno di mio marito e per lui, che è spesso in trasferta, sarebbe più difficile ottenere un tempo parziale». È un ragionamento pratico, che coniuga una parte di scelta e una di necessità: «Finché non ci sarà una paternità obbligatoria della stessa durata della maternità le cose non cambieranno – dice Annalisa (nome di fantasia) –. Il mondo del lavoro continuerà a organizzarsi mettendo in conto a priori di fare a meno delle donne che hanno figli».
Oggi è l’8 marzo, la Giornata internazionale della donna, ed è inevitabile parlare di uno dei temi centrali del nostro tempo: il lavoro, con le sue difficoltà, le sue aspirazioni, i ritmi serrati in cui le giovani generazioni non si riconoscono più, l’indipendenza economica che assicura e tutela – ovviamente non da sola – dalle violenze, e in cui continuano a persistere forti disparità di genere.
In Italia, ci dice l’Eurostat, lavora il 55% delle donne tra i 24 e i 60 anni, contro una media europea del 69,3%. Quasi la metà (49%) lavora part time. Percentuali analoghe le ritroviamo in provincia di Brescia, dove il 49,6% delle lavoratrici nel privato è a tempo parziale (dati Inps). Per Cristina Alessi, docente di Diritto del lavoro all’Università degli studi di Brescia e delegata alla Commissione CRUI sulle tematiche di genere, questi numeri indicano innanzitutto due cose: «Sono le donne che rinunciano più spesso al tempo pieno perché continuano a essere le responsabili principali dell’attività di cura, sia dei figli sia degli anziani. E buona parte di questi part time sono involontari: si prendono, in mancanza di meglio».
I problemi
Per alcune quindi è una scelta, per altre rappresenta l’assenza di alternative. L’Organizzazione mondiale del lavoro stima che in Italia le donne svolgono ogni giorno 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura mentre gli uomini un’ora e 48 minuti. È vero che la mentalità sta cambiando con le generazioni, ma è indubbio che l’esperienza della genitorialità continui a mettere più in difficoltà le donne degli uomini (una su cinque esce dal mercato del lavoro dopo il primo figlio). Spiega Alessi: «Si dà ancora per scontato che quando ci sono figli di mezzo sia la donna a prendersi il carico maggiore. Per un uomo la paternità non incide affatto sulle prospettive di carriera e neanche nella quotidianità: chi sta a casa, in prevalenza, quando un bimbo è malato?».
Questa dinamica impatta su un quadro complessivo in cui le donne guadagnano in media meno degli uomini (in provincia di Brescia il calcolo arriva fino a circa 10mila euro in meno) e in cui le famiglie spesso non possono sostenere le spese sommate di mutuo, rate mensili da 400-500 euro (anche 700 se privato) di nido e babysitter. A quel punto per molti conviene rinunciare a uno stipendio, o a parte di esso.
Rivendicazioni collettive
In teoria il part time dovrebbe aiutare a conciliare meglio i tempi lavorativi e privati, ma per una donna che è madre oggi in Italia significa anche ridurre le opportunità di carriera. «Eppure non sta scritto da nessuna parte che il part time impedisca di diventare manager, ma dovremmo smettere di pensare che fare il capo significhi lavorare venti ore al giorno – prosegue Alessi –. In più è diffuso il pensiero che le donne non siano abbastanza competenti per fare certi lavori, o sufficientemente affidabili. Perché, appunto, potrebbero diventare madri».
Il famoso soffitto di cristallo da sfondare diventa quindi un «pavimento appiccicoso» da cui è difficile togliersi. Ma per cambiare le cose, sottolinea la docente, «serve agire anche sul lavoro degli uomini. Il congedo di paternità deve diventare obbligatorio e va tolto lo stigma sociale a chi si prende un periodo per stare a casa con i figli, come se fosse sminuente per un maschio».
Il part time può quindi essere una scelta, peraltro legittima, ma dovrebbe essere un’opzione percorsa in modo più equo per non alimentare le disparità che esistono già. E andrebbe supportata poi con più posti nei nidi (tra gli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza) e orari delle scuole più compatibili con quelli del lavoro.
Non si può pensare di rimandare ancora la questione. Vanno chiesti strumenti diversi e vanno chiesti «collettivamente – insiste Alessi –. Abbiamo bisogno di una rivendicazione sociale da parte di tutti, che sradichi i ruoli stereotipati. Dentro i posti di lavoro, ma anche fuori».
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