Mercalli: «Il clima è malato: la cura non piace, ma è necessaria»

Il climatologo e divulgatore scientifico: «Non c’è più tempo per guarire, ma possiamo ancora evitare di arrivare a quei 4, 5, 6 gradi in più che sarebbero disastrosi»
Luca Mercalli, climatologo e divulgatore scientifico - © www.giornaledibrescia.it
Luca Mercalli, climatologo e divulgatore scientifico - © www.giornaledibrescia.it
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Luca Mercalli lo conoscono un po’ tutti anche grazie alla sua partecipazione alla trasmissione «Che tempo che fa» e al suo inconfondibile papillon. Linguaggio semplice ed efficace, alla portata di tutti, da anni cerca di sensibilizzare sui cambiamenti climatici. Ha scritto libri per Bur Rizzoli, Einaudi e ha una rubrica fissa su Gardenia. È presidente della Società meteorologica italiana.

In questi giorni si parla di caldo record...

«La situazione è palese, in Italia e nel mondo. Il programma europeo Copernicus ha confermato che i giorni dal 21 al 24 luglio sono stati i più caldi nella storia della Terra, l’anno scorso è stato l’anno più caldo. Un dato ampiamente previsto 50 anni fa. Non sono notizie nuove, le Nazioni Unite rivolgono appelli, si fanno conferenze ogni anno che non portano a nulla. Si gira a vuoto. Non c’è una presa di coscienza per agire e risolvere la situazione».

Siamo ancora in tempo per invertire la marcia?

«Bisogna considerare il cambiamento climatico come una malattia: non c’è più tempo per guarire, non si può tornare indietro, ci vogliono millenni per recuperare quell’innalzamento di temperatura di un grado e mezzo dell’ultimo secolo, ma possiamo iniziare una cura e non arrivare a quei 4, 5, 6 gradi in più che sarebbero disastrosi per mari, agricoltura, approvvigionamento dell’acqua e alluvioni, come quella del 29 giugno in Valle d’Aosta».

Come?

«Con un serio programma internazionale di mitigazione del cambiamento climatico. Ma siamo al negazionismo e noi climatologi siamo bollati come catastrofisti o in cerca di visibilità. L’intento della scienza è avvertire l’umanità, non mi diverto a parlare di catastrofi».

Perché si nega il cambiamento climatico?

«Primo, per interessi economici, principalmente quelli dei combustibili fossili. E questo rallenta le scelte politiche. Danno fastidio le certificazioni da fare, le auto elettriche, gli obblighi di ristrutturazioni, ma sono cose logiche che avremmo comunque dovuto fare. Il secondo motivo è di tipo antropologico: finché non si ha il problema in casa lo si evita per pigrizia, paura del cambiamento o dei rincari. È una difesa naturale, ma sbagliata. Se il cambiamento climatico non è generato dall’attività umana allora sono assolto, ma ognuno di noi emette 7mila kg di CO2 all’anno. Siamo tutti responsabili, chi più, chi meno».

Molti hanno negato il surriscaldamento globale quando, questa primavera, ha piovuto parecchio.

«Ci saranno luoghi più freschi nel mondo in ogni momento. Non basta questo, bisogna guardare i dati. Già confondere la pioggia con il fresco è un errore. Anche quando si ha 42 di febbre, magari, si hanno i piedi freddi».

Come comportarsi?

«Cercando di pesare meno sul pianeta, consumare meno energia e puntare soprattutto sulle energie rinnovabili, isolare la propria casa, installare serramenti con i vetri tripli, mettere i pannelli solari sui tetti, e non sui terreni. E poi usare meno l’aereo, almeno quando non è necessario, anche per le vacanze. Ridurre i rifiuti, aumentare il telelavoro - io ad esempio non vado più ai convegni, ma partecipo collegandomi con un click con Skipe -, mangiare meno carne - non sono vegetariano, basta mangiarne di meno per ridurre le emissioni -, evitare la moda fast fashion - tessuti sintetici, quindi derivanti dal petrolio che arrivano dall’altra parte del mondo, emettendo CO2, e che vengono buttati dopo averli indossati poche volte finendo in discariche in Africa -. Ogni gesto contribuisce. Quando il medico mette il paziente a dieta non piace a nessuno, ma lo fa per evitare che gli venga l’infarto».

Speriamo che qualcosa si muova...

«Speriamo, ma sono 35 anni che spero, ma non vedo cambiamenti».

Ha fiducia?

«Poca, perché guardo i fatti. Si può essere fiduciosi perché ci sono soluzioni, ma il paziente non vuole prendere la medicina perché dice che non è buona».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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