Marco Sandrone (Msf): «Mai vista una devastazione come a Gaza»

Il racconto del capo progetto di Medici Senza Frontiere, con alle spalle 10 anni di esperienza sul campo come operatore: «Una violenza mai vista, intere famiglie cancellate»
La devastazione causata dai bombardamenti a Gaza City - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
La devastazione causata dai bombardamenti a Gaza City - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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«La popolazione palestinese è sollevata, ma ha paura che la tregua non venga rispettata». Marco Sandrone, capo progetto di Medici Senza Frontiere, è rientrato in Italia da pochi giorni, quando si susseguivano le prime dichiarazioni pubbliche che avrebbero poi anticipato l’accordo sulla tregua promosso da Donald Trump.

Dopo un mese e mezzo di lavoro a Gaza City ha dovuto evacuare, insieme agli altri medici e operatori di Msf. «I carri armati dell’Idf erano a meno di un chilometro dalla nostra clinica e l’esercito aveva bloccato la possibilità di rientrare in città – dice il 42enne, originario del Cuneese –. Era impossibile garantire i servizi sanitari, era rischioso anche solo lo spostamento da casa alla clinica».

Così, mentre vigeva il blocco totale a Gaza City e piovevano bombe, quasi tutte le Ong hanno dovuto abbandonare la Striscia. «Era chiaro che ormai non ci fosse più alcun luogo sicuro, l’ha dimostrato la perdita di colleghi di Msf, uccisi in strada mentre aspettavano che il bus li portasse al lavoro».

Cosa ricorda di quegli ultimi giorni a Gaza City?

«Nel momento in cui c’è stato l’annuncio dell’occupazione i pochi ospedali operativi hanno dovuto bloccare tutte le attività perché non avevano la possibilità di essere riforniti. Nulla poteva più entrare a Gaza City: né beni primari né di approvvigionamento. Così anche servizi di supporto al sistema sanitario e di distribuzione di acqua potabile non sono stati più supportati».

È stato quello il momento peggiore?

«È difficile dirlo. I colleghi palestinesi che hanno vissuto in prima persona l’intero conflitto hanno subìto picchi di terrore quotidiani per due interi anni. Di certo la situazione era drammatica».

Cosa stanno provando i palestinesi di fronte a questa tregua?

«La popolazione, ormai martoriata, affamata e in lutto, chiedeva innanzitutto sicurezza. Dopo l’annuncio ha sicuramente vissuto un momento di sollievo, ma allo stesso tempo c’è grande paura. In due anni sono morte 67mila persone e quasi 200mila sono rimaste ferite, delle quali più del 50% donne e quasi il 20% sotto i cinque anni. Hanno arti amputati e gravissime ustioni. Ci vorranno generazioni per sanare un dramma di questo tipo. Sono numeri spaventosi».

I colleghi locali la stanno informando della situazione oggi?

«Sì. E nelle nostre strutture continuiamo a ricevere bambini e donne in gravidanza con livelli acuti di malnutrizione. Sembra che ora stia entrando del cibo, ma abbiamo ormai raggiunto livelli di malnutrizione elevatissimi. Inoltre le persone stanno provando a tornare a casa ma non solo il loro quartiere non c’è più, non c’è più neanche il resto. Tutto è livellato».

Lei ha dieci anni di esperienza sul campo come operatore. Ha mai assistito ad una devastazione tale?

«Ho lavorato anche altrove ma nulla può preparati all’intensità della violenza militare rappresentata a Gaza. Non ho mai visto un contesto in cui un apparato militare altamente tecnologico e sviluppato per aree di combattimento viene utilizzato sulla popolazione civile in una zona urbana ad altissima densità. C’era di tutto: droni, bombe incendiarie, carri armati telecomandati, jet militari».

C’è una storia che farà fatica a dimenticare?

«Quella di Maria, una paziente, una bambina di 9 anni, sopravvissuta a una bomba sganciata mentre la famiglia preparava la cena. La mamma e il papà sono morti. Maria aveva ferite al volto, frammenti di bombe in tutto il corpo, gambe e braccia fratturati. Piangeva tutto il giorno, chiamava i suoi genitori e voleva tornare a casa sua ma quella casa non esisteva più. Ora vive con la nonna e i suoi fratelli in una tenda. Allo stato attuale c’è un’intera generazione di bambini senza genitori che portano delle cicatrici indelebili sia a livello fisico che a livello mentale».

Tornerà a Gaza?

«Se ci sarà bisogno sì. Spero di tornare».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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