Maltrattavano le figlie «non brave musulmane»: condannati e spariti

Devono scontare cinque anni di carcere, ma padre, madre e fratello delle quattro giovani sono irreperibili: firmato il decreto di latitanza
Il tribunale di Brescia - © www.giornaledibrescia.it
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Li hanno cercati anche sotto ai letti. E non li hanno trovati. Fuggiti per non finire in carcere e scontare la condanna a cinque anni diventata definitiva la prima settimana di luglio. Dopo Giacomo Bozzoli un altro caso di latitanza in provincia di Brescia. Questa volta i protagonisti sono tre. Componenti di una famiglia di origini pakistane. Padre, madre e fratello - tutti con cittadinanza italiana - di quattro ragazze, vittime di maltrattamenti perché ritenute «non brave musulmane» dalla famiglia. 

Latitanti

Sarwar Mohammad, 67 anni, la moglie Shamshad Bashir, 48 anni, e il figlio Amanat Ali, 29 anni, sono irreperibili e il primo giudice che li ha condannati ha firmato il decreto di latitanza. Il pm Erica Battaglia, titolare dell’inchiesta, ha già disposto le prime ricerche dopo aver scoperto che i tre sono fuggiti per evitare il carcere. La donna potrebbe essersi allontanata dall’Italia già tempo fa, mentre gli inquirenti erano convinti che padre e figlio fossero ancora nella loro abitazione dove risultava avessero la residenza.

Quando gli uomini della Questura si sono presentati nell’abitazione hanno scoperto che ci abitava un connazionale dei due uomini. Evidentemente scappati. Restano invece sotto protezione - viene garantito - le quattro sorelle che venivano «colpite con schiaffi e pugni e tirate per i capelli ad ogni minima disubbidienza o al rifiuto di studiare ogni giorno il Corano e di praticare le cinque preghiere rituali al giorno sin dalle 4 del mattino».

I familiari condannati in Cassazione, dicevano alle quattro ragazze vittime di maltrattamenti fisici e psicologici che «non erano buone musulmane» arrivando a minacciare la più grande di «fare la fine di Sana Cheema» la 25enne di origini pakistane, cresciuta a Brescia e uccisa in Pakistan nell’aprile del 2018 per aver detto no al matrimonio combinato.

La vicenda

I giudici d’appello e poi la Cassazione ad inizio luglio, avevano confermato la sentenza firmata dal presidente della prima sezione penale Roberto Spanò che nelle motivazioni aveva ricordato che: «I soggetti provenienti da uno Stato estero devono verificare la liceità dei propri comportamenti e la compatibilità con la legge che regola l’ordinamento italiano. L’unitarietà di quest’ultimo non consente, pur all’interno di una società multietnica quale quella attuale, la parcellizzazione in singole nicchie, impermeabili tra loro e tali da dar vita ad enclavi di impunità».

Rigettando la tesi difensiva del reato culturalmente orientato. «Del resto - si legge in sentenza - la giurisprudenza di legittimità ha da tempo escluso ogni rilevanza scriminante dei comportamenti indotti da fattori culturali o ideologici confliggenti con i valori fondamentali inderogabili dell’ordinamento, tra i quali è ricompreso anche il rispetto delle norme penali, ispirate alla tutela delle vittime, quale limite invalicabile rispetto all’infiltrazione nella società civile di consuetudini, prassi, costumi contrastanti con il progresso sociale e con l’intangibilità dei diritti fondamentali dell’individuo. Sia esso cittadino che straniero».

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