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Farmaci letali, il dottor Mosca: «Incubo finito. Ora chi mi ridà i miei 3 anni?»

La Corte d'assise d'appello ha assolto a ottobre il medico, che quindi non dovrà presentarsi in Cassazione
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L'intervista al dottor Mosca
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Millecentotrentaquattro giorni. Tanto ci ha messo la giustizia per riconoscere che Carlo Mosca non ha ucciso nessuno e tanto ci ha messo l’ex primario del pronto soccorso di Montichiari a vedere riconosciuta l’innocenza che ha predicato per tutto questo tempo.

La procura generale, cosa che non accade di frequente, non ha impugnato la sentenza di assoluzione pronunciata (anche) dalla Corte d’assise d’appello il 13 ottobre dello scorso anno. Il medico, accusato di aver ucciso due pazienti iniettando loro farmaci letali per liberare spazio in corsia nel pieno della prima ondata Covid, non dovrà presentarsi anche in Cassazione. Per lui è la fine di un incubo.

Cosa vorrebbe riavere di quello che aveva prima delle accuse e del processo?

«Ho studiato tutta la vita per arrivare dov’ero arrivato. Per un medico come me la cosa più importante è il lavoro, la carriera: ero primario, rivoglio il mio incarico. Vorrei anche riavere il rapporto che avevo con mia figlia e con la mia compagna. Ma a chi posso chiedere tutto ciò?».

Cosa prova un medico che ha studiato per salvare vite davanti ad un’accusa di duplice omicidio, per giunta volontario?

«Non ci crede. È assurdo. Studiamo anni per strappare le persone alla morte e facciamo di tutto per riuscirci. Soprattutto chi come me è specializzato nella medicina di emergenza. Solo una persona che non conosce la nostra professione può ipotizzare un’accusa come quella contro la quale mi sono dovuto misurare».

Ha mai temuto di non riuscire a dimostrare la sua innocenza?

«Sì. Quando mi sono presentato per l’interrogatorio di garanzia con i miei avvocati Elena Frigo e Michele Bontempi per spiegare che avevano preso un abbaglio. Avevo dimostrato che il cestino nel quale gli infermieri che mi accusavano avevano fotografato le fiale di Succinilcolina e Propofol era stato manomesso, che quei due farmaci non potevano essere li e che nessuno avrebbe potuto fotografarli li dentro. Ero convinto di riuscire a chiudere tutto in quell’occasione, invece non è stato così».

È stato diciotto mesi agli arresti domiciliari. Che ricordo ne ha?

«Terribile. Un longcovid, lunghissimo. Senza contatti con nessuno. A misurarmi con un’accusa assurda, pesantissima. Tutto da solo con mio papà. Una sofferenza terribile».

Oltre ad assolverla la Corte d’assise di primo grado ha mandato gli atti alla procura perché indaghi per calunnia i due infermieri che avevano prodotto le foto di quel cestino e l’avevano accusata del duplice omicidio. I giudici hanno ipotizzato un complotto a suo danno. Lei si è mai chiesto perché se la presero con lei?

«Un sacco di volte e non mi sono mai dato una risposta accettabile. Diciamo che anche loro si erano trovati in una situazione drammatica, a Montichiari non erano abituati ad avere a che fare con persone che morivano in pronto soccorso. Diciamo che erano spaesati. Certo non giustifica quello che hanno fatto».

Spera che siano condannati?

«No. Mi interessa solo che siano processati. Che anche loro vadano davanti ai giudici e si ritrovino davanti ad un Tribunale. A difendersi. Mi piacerebbe che anche loro provassero quello che ho provato io».

I giudici hanno parlato anche di forzature colpevoliste nei suoi confronti dei consulenti dell’accusa, si tratta di medici, di suoi colleghi. Cos’ha provato?

«Incredulità. I miei avvocati hanno dovuto tenermi fermo al banco, quando ho sentito il consulente del pm dire che il Paletti (uno dei due pazienti per l’accusa uccisi da Mosca, ndr) non aveva le piaghe sulla schiena, ma che non aveva tolto il suo cadavere dalla bara in sede di esame autoptico e non l’aveva nemmeno girato pancia sotto. Ma questa è una sola delle affermazioni allucinanti che sono state fatte in quell’aula. Da medici. Da professionisti. Roba da non credere».

Diceva lo scrittore il merito del passato è di essere passato...

«Sono abituato a guardare avanti, diciamo che la mia è una deformazione professionale. Però i miei tre anni non me li ridarà più nessuno». 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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