«Faccio ridere sul palco ma dentro piango mio figlio, morto in un incidente»

Giorgio Zanetti, comico e conduttore radiofonico, racconta il dolore per la perdita di Alex, scomparso nel 1999 a 15 anni
Giorgio Zanetti - © www.giornaledibrescia.it
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Nell’immaginario collettivo un comico non potrebbe mai piangere. «E invece di lacrime ne ho versate tante. Per un dolore che non si può descrivere» ammette Giorgio Zanetti. Cabarettista, conduttore di Radiobresciasette, conosciuto al grande pubblico per il ruolo della suora portato sul palco di Zelig. E padre di Alex, un ragazzo di 15 anni morto in un incidente stradale nel 1999.

Giorgio, parliamo di un dramma senza fine...

«È un disastro, un terremoto. Io credo che sia un dolore diverso da tutti gli altri, perché l’amore per un figlio è incondizionato. Basti pensare che nonostante sia passato tanto tempo ormai, qualche anno fa in occasione di quello che sarebbe stato il giorno del compleanno di Alex avevo pubblicato su Facebook una sua fotografia. Dopo qualche ora l’ho tolta perché mi aveva stravolto la giornata. Ero improvvisamente tornato a rivedere il mondo grigio come nel periodo successivo all’incidente».

Come era successo?

«Alex giocava a rugby nel Pagani Rovato. Quell’estate lavorava in una pizzeria in attesa di riprendere la scuola. Studiava infatti a Edolo e sognava di diventare guardia forestale perché amava la natura. La sera del 26 agosto 1999 stava tornando a casa in moto e ha fatto tutto da solo prendendo un cordolo».

E si materializza così l’incubo di tutti i genitori: la telefonata dall’ospedale.

«Mi hanno chiamato alle tre di notte, mi han detto di andare in pronto soccorso. Nel dirmi così, senza aggiungere altro, io avevo già capito. Questione di sensazioni. Ci saremmo dovuti vedere il giorno successivo, ma quel pomeriggio venne a trovarmi a sorpresa e siamo stati insieme, prima che iniziassi uno spettacolo. Quando mi han chiamato dicendomi: “Suo figlio ha fatto un incidente, venga in ospedale” sono andato a 30 all’ora in auto perché avevo la certezza che Alex non c’era più. Senza che mi avessero detto niente, dentro di me sapevo che era morto. E infatti così è stato».

Come ha fatto a reagire?

«Ho vissuto un anno come in una sorta di sogno-incubo. E nonostante questo però non ho mai smesso di lavorare. Quando è successo ero in tournée per Zelig e avevo uno spettacolo quattro giorni dopo. Volevano sostituirmi ma io dissi di no perché sarebbe stato peggio se mi fossi fermato. E ho lavorato lo stesso. È stata la terapia più grande per me, perché stavo in mezzo alla gente. E mi ha permesso di sentirmi lo stesso vivo. Poi ho fatto un lungo percorso fino a farmene una ragione, per quanto è possibile.

Ho sentito racconti di gente che parlava dei figli morti in guerra. Una storia che mi aveva scioccato era stata quella di una signora che mi ha detto che lei da bambina aveva visto sei fratelli morire nel pozzo, buttati dai tedeschi e io ho pensato: “Davanti ad una storia così, io non riesco ad uscire dal mio dramma?”. Quella donna mi ha dato una forza per dire “la vita è anche questo, bisogna saperlo affrontare”. Comunque è una botta tremenda, un trauma che è difficile da spiegare».

Lei fa ridere per professione, ma dentro cosa prova?

«Un grande vuoto. Non è come la morte di un genitore o di un fratello. Vedere morire un figlio è una cosa diversa. Probabilmente c’è un legame, un’energia che è diversa. È una parte di te che perdi. Detto questo, credo che sia un preciso dovere anche di un genitore reagire. Il dolore ci deve essere, ma deve essere anche metabolizzato, perché non puoi vivere costantemente giustificandoti di una mancanza. Bisogna trovare la forza di superarlo. Ci ho messo un po’ di tempo, tanto, però assicuro che il lavoro è stata la mia terapia più forte».

La morte di un ragazzino è un dolore per la famiglia e una domanda senza risposta per gli amici e i coetanei.

«Quando sei giovane non devi pensare alla morte. E non ci pensi. Alex era amato da tutti e l’ultima immagine che ho è la bara portata a spalle dagli amici. Questa è una cosa che mi è rimasta impressa. Tanti ragazzi li ho rivisti nel tempo e adesso hanno quasi 40 anni e tutti conservano il ricordo di lui, perché quella è un’età in cui crei un legame che difficilmente ricrei poi nella vita con altre persone».

Cosa si sente di dire alla famiglia di Nicola Faroni, morto a 20 anni in auto mentre tornava da uno spettacolo di magia?

«Il dolore adesso è devastante, è inutile parlarne. A mamma e papà dico solo: abbiate la bellezza di pensare che vostro figlio ha fatto quello che ha voluto fino all’ultimo momento della sua vita, quello che gli piaceva. Questa è la cosa più bella».

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