Ursula sull’otomàna il potere delle parole
«Té, gh’ét vést la Ursula? Lü, chèl dela Turchìa, e l’alter rimbambìt i l’ha lasàda de per sò cönt sö l’otomàna. Chèi ludri...». La voce della mia biancocrinita dirimpettaia vibra di indignazione, mentre ne parla con l’amica dalla finestra. È l’indignazione di chi sa quanto cammino, e con quanta fatica, abbiano fatto qui da noi i rapporti fra uomo e donna. Conquiste a cui troppa parte del mondo non apre le porte. Noi invece - ed è una nostra forza - dalle culture degli altri abbiamo spesso saputo imparare, magari anche solo nell’uso delle parole. Pure in dialetto. È - guarda un po’ - il caso dei termini con cui i nostri nonni indicavano il divano. Nel dizionario italiano-bresciano realizzato da Giovanni Scaramella nel 1990 e oggi messo gratuitamente a disposizione dal sito www.scaramella.brescia.it (bellissima iniziativa!) per tradurre «divano» sono indicati tre vocaboli bresciani.
Il primo è otomàna, dove il richiamo all’origine turca della parola è evidente. Un secondo è sofà, altro termine che proprio come l’italiano guarda fuori Europa e viene dall’arabo «suffa», che indica il cuscino. Infine canapé, che ci arriva dal francese e ancora più indietro dal latino «conopeum», parola che - proprio come il vocabolo greco antica con lo stesso suono - indicava la zanzariera.
«Lùr envéce - prosegue la dirimpettaia parlando degli uomini di Istanbul - i s’è tignìcc strètt la cadréga», usando un termine che deriva dal latino «cathedra», luogo autorevole da cui si insegna e si decide. Insomma: per la donna una seduta destinata all’elegante riposo, per gli uomini una seduta da potere. Quanto parlano le parole...
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