Un nome rubato per uscire dalla clandestinità

L'identità di Carmela usata, a sua insaputa, per domande di regolarizzazione. Da marzo la sua vita è diventata un incubo ed ora è pronta a tutto per portare la sua storia all'attenzione di chi di dovere.
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È pronta a incatenarsi davanti al Tribunale, ad arrampicarsi su una gru o a salire su un tetto per portare la sua storia all'attenzione di chi di dovere. È determinata la signora Carmela, anche perché è esasperata e amareggiata per l'incubo che sta vivendo dallo scorso marzo.
I suoi dati personali - non si sa per quali strane vie - sono finiti nelle mani di un'organizzazione criminale che vende false richieste di emersione dal lavoro nero agli immigrati, nell'ambito della legge per la regolarizzazione dei clandestini. La sua carta d'identità, il suo codice fiscale e pure il suo numero di cellulare sono divenuti patrimonio comune di alcuni stranieri che l'hanno contattata chiedendole di versare i contributi all'Inps o di presentare una falsa dichiarazione della loro assunzione.
Lo scorso marzo, quando aveva ricevuto la prima strana telefonata da un indiano che le aveva chiesto il codice fiscale, dopo avere sporto denuncia ai carabinieri e aver concordato con loro il da farsi, era riuscita a far arrestare due indiani che sfruttando i suoi dati avevano presentato la domanda di regolarizzazione. Due giorni in carcere, ma poi vennero liberati.
Ora, all'inizio di ottobre, un altro indiano le ha scritto una lettera da Roma in cui intima alla signora Carmela di contattarlo immediatamente per «terminare l'iter di regolarizzazione», visto anche il licenziamento che aveva posto fine al rapporto lavorativo, sempre come collaboratore domestico che veniva pagato mensilmente in contanti.
«Ma le sembra che io, che lavoro come operatrice sanitaria e guadagno 950 euro al mese possa permettermi un collaboratore domestico? Addirittura tre, stando alle richieste di regolarizzazione che portano i miei dati?» chiede la signora Carmela con grande amarezza. «Pensavo che con l'arresto di quei due non ci sarebbero stati più problemi e invece ora mi vedo recapitare questa lettera. Non ce la faccio più, non dormo più, non vivo bene. Ma perché - si chiede ancora la vittima di questo raggiro più grande di lei -, perché i giudici hanno liberato quei due dopo così pochi giorni, senza continuare le indagini, senza scoprire come sono riusciti a impossessarsi dei miei documenti?».
Esasperata la donna si chiede a che punto siano le indagini, che passi avanti si siano fatti se, a distanza di mesi, qualcuno usa ancora i suoi dati personali.
«Significa che non sono riusciti a capire come mi siano stati sottratti, che non sanno chi li stia ancora utilizzando. Eppure sulla busta c'è un mittente, perché non vanno a chiedergli com'è fatta casa mia, quante stanze ha visto che dovrebbe conoscerla se ha fatto il collaboratore domestico? Ma soprattutto perché non riescono a trovare chi si sta ancora servendo dei miei documenti?». Con le lacrime agli occhi di chi sente di non aver alcun tipo di tutela dallo Stato, continua a raccontare le sue vicissitudini. «Sono stata anche all'Inps. All'inizio mi hanno trattato come se io c'entrassi qualcosa in questa storia, come se fossi una complice di questa gente e non la vittima. Erano sospettosi, poi quando ho mostrato la denuncia ai carabinieri e ho fatto notare che non c'era corrispondenza tra la mia firma e quella sulla domanda di emersione dalla clandestinità. Allora mi hanno rassicurato dicendomi che non devo pagare nulla. Ma ora voglio che quest'incubo finisca. Che si trovi chi usa i miei dati. E sono decisa a non fermarmi. Non posso continuare a vivere così. Chi può e deve farlo, mi aiuti a risolvere il problema».

Daniela Zorat

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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