Se la mafia in giacca e cravatta cambia e la legge no

Grazie alla sua capacità di «adeguarsi al presente» la piovra ha messo il più delle volte fuorigioco la norma «adeguata al passato»
Il 23 maggio del 1992, sull'A29, nei pressi dello svincolo di Capaci, perdono la vita Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro - Foto © www.giornaledibrescia.it
Il 23 maggio del 1992, sull'A29, nei pressi dello svincolo di Capaci, perdono la vita Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro - Foto © www.giornaledibrescia.it
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«La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa».

Lo scriveva Giovanni Falcone nel suo «Cose di Cosa nostra» nel 1991, nove anni dopo l’introduzione nel codice penale dell’art. 416bis, quello che prevede e punisce l’associazione di stampo mafioso.

Non è dato sapere se il magistrato simbolo dell’antimafia, ammonendo sulla duttilità delle cosche e sulla loro capacità di adeguarsi rapidamente ai tempi, volesse richiamare il legislatore ad un continuo aggiornamento degli strumenti per contrastarle.

Di questo, come di altri insegnamenti della più illustre vittima della mafia, non pare che il legislatore abbia tenuto in particolare conto. Al netto di alcune integrazioni successive, anch’esse risalenti nel tempo, e ad alcune interpretazioni estensive della Cassazione, l’art. 416bis è ancora quello varato subito dopo il Mondiale di Rossi, Bearzot e Pertini.

Nel frattempo però la piovra ha cambiato vestiti, habitat ed abitudini: ha dismesso la coppola, indossato camicie bianche e inamidate ed è venuta «giù al Nord» per fare affari con le imprese e la finanza. Grazie alla sua capacità di «adeguarsi al presente» ha messo il più delle volte fuorigioco la norma «adeguata al passato», costretto spesso le procure del settentrione ad incassare riqualificazioni e derubricazioni delle loro contestazioni e ad «accontentarsi» di condanne per i semplici reati «satellite»: dalle estorsioni all’usura, dal riciclaggio alla frode fiscale.

La mafia che da tempo fa affari al nord e con il nord, ma per colpa di una normativa che àncora la mafiosità ai suoi territori di elezione e a modalità d’agire stereotipate - coppola&lupara tanto per semplificare - tra Torino e Trieste rischia di essere mafia di fatto, non anche di diritto.

«L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti» recita il terzo comma del 416bis. Una forza d’intimidazione che si dà per provata in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania, ma che è tutta da dimostrare in Lombardia, Piemonte e Veneto, dove la mafia si è infiltrata senza le bombe e la lupara, si muove con altrettanta efficacia, ma anche con più circospezione. Quella circospezione che le permette di essere «sempre diversa per essere sempre uguale a se stessa».

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