«San Patrignano, il docufilm non racconta tutta la verità»

Per Claudio, Vincenzo Muccioli «è l’uomo rappresentato in un quadro nella sala riunioni di San Patrignano e una sua frase sull’importanza del lavoro che chiunque vede quando entra». Stefano e Luigi lo hanno conosciuto dal racconto degli operatori.
Sono tre bresciani che hanno da poco lasciato la comunità di Rimini tornata in questi giorni al centro della cronaca per il docu-film in onda sulla piattaforma Netflix che racconta la storia, tra luci, ombre e misteri, di «Sanpa» e soprattutto del suo fondatore, morto nel 1995 dopo aver affrontato un processo concluso con la condanna a otto mesi per favoreggiamento nell’omicidio colposo di Roberto Maranzano, ospite della strutturata e vittima di un pestaggio nel reparto macelleria dove lavorava. In precedenza Muccioli era già stato arrestato, condannato in primo grado e poi assolto in appello, per sequestro di persona in quello che era stato definito il processo delle catene.
«Nella serie tv si sono volute raccontare soprattutto le vicende negative, che non sono invenzioni, sono fatti realmente accaduti, ma hanno dato spazio praticamente solo a quelli fino a coprire gli episodi positivi» racconta Stefano, 25enne che ha vissuto in comunità tre anni e otto mesi. «Facevo uso di hashish e marijuana e mi davano dipendenza psicologica. I miei a Sanpa mi ci hanno mandato a calci nel sedere».

Muccioli è stato divisivo da vivo, amato e odiato, santo e diavolo allo stesso tempo, e lo è ancora oggi, nonostante siano passati 25 anni dalla sua morte. «Inutile dare il nome "Sanpa" ad un docufilm che in realtà è interamente dedicato alla figura del fondatore» è il pensiero di Nunzia Ramponi, bresciana che ha lavorato dieci anni come dipendente di Sanpatrignano, nell’area raccolta fondi. «Muccioli c’è stato dal ’78 al ’95, ma la comunità di anni ne ha 42. La Sanpa di oggi è frutto della Sanpa di allora e un documentario - aggiunge Nunzia Ramponi - avrebbe dovuto raccontare tutto. Anche per rispetto degli ospiti attuali e delle loro famiglie. Ho visto in che condizioni padri e madri portano i ragazzi. Li affidano a Sanpatrignano perché la vedono come l’ultima speranza e questo film getta fango sulla struttura».
Per Claudio, 33 anni di cui tre e mezzo vissuti nella comunità riminese da dove è uscito lo scorso 20 novembre «solo chi è stato lì dentro può davvero capire che cosa è San Patrignano. Chi varca quel cancello è succube della sostanza e vede solo la droga come unica ragione di vita. Io - aggiunge - ero uno scarto della società, un reietto perché mi ero messo da solo in quella situazione. Ne sono uscito grazie alla comunità che ho conosciuto grazie ad un amico di mio padre che c’era stato anni prima . L’ingresso -prosegue - psicologicamente è stato un inferno: via il telefono, via i soldi e soprattutto bisognava rispettare molte regole che per uno come me che viveva di notte a colpi di cocaina e dormiva di giorno era impossibile anche solo da immaginare».
Ovviamente ha già guardato la serie tv. «Ognuno si farà una propria opinione, ma sicuramente non arriva la verità» è il giudizio del 33enne.
I bresciani che sono stati ospiti giurano di non aver mai assistito ad episodi di violenza. «Urla in faccia sì, ma niente di più. Quelli che volevano scappare, venivano obbligati ad indossare le ciabatte così non sarebbero potuti andare lontani» racconta Luigi, 21 anni, e alle spalle tre anni e quattro mesi di Sanpatrignano. «Vedere il docufilm mi ha fatto arrabbiare» ammette. Stefano aggiunge: «C’era un modo di rinchiudere il tossico diverso da quello di una volta. Quando sale l’astinenza e vuoi andartene, ti trattengono a parole, facendoti sentire piccolo piccolo. Ti mettono davanti alla realtà dicendoti che se esci torni ad essere un drogato, rifiuto della società. E allora resti. Oggi se sono vivo è per San Patrignano».
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