Resistenza bresciana: due donne che hanno fatto la storia
Nel giorno della Festa della Liberazione, tra memoria e auspicio, due storie di donne bresciane che hanno combattuto contro il regime fascista, ognuna con il suo prezioso contributo. Sono Luigina Forcella, 97 anni, e Elsa Pelizzari, 92 anni.
La prima a 18 anni era stata incaricata di avvisare, porta per porta, le persone in pericolo. La seconda è diventata staffetta a soli 14 anni, contribuendo alla liberazione della Valsabbia. Ecco le loro storie.
Una «postina» ancora innamorata della libertà
di Antonio Borrelli
Elegante, lucida, autoironica e innamorata della libertà, oggi come 75 anni fa. Piena di vitalità, Luigina Forcella rappresenta l’intero ventaglio di aggettivi, anche a 97 anni. Quando ha 18 anni, monsignor Luigi Fossati in Duomo la indirizza verso la Resistenza e la sua vita cambia per sempre. «Ho iniziato facendo la “postina”, cosi mi chiamavano. Andavo a informare le persone in pericolo che dovevano scappare. Quindi il mio compito era un po’ pericoloso, perché suonavo ai campanelli sui quali non c’era il nome e potevo anche sbagliare. Però mi è sempre andata bene. Una volta un professore non credeva alle mie parole, in quel momento ebbi paura. Dopo qualche attimo di tensione ci capimmo, ma lui non mi credette lo stesso, non scappò. Finì in carcere».
È un fiume in piena Gina, la postina senza lettere. «Non portavo biglietti, non potevo. Dovevo avere tutto in testa: ricordare a mente gli indirizzi e comunicare a voce. Ricordo che facevo tre viaggi ogni sera». Nella sua casa in città, piena di ricordi della Liberazione, ci accoglie elegante e desiderosa di divulgare la memoria di quegli anni drammatici. Parla della sua attività di staffetta, ma anche di quando lavorava negli uffici della OM e copriva i partigiani che rubavano le armi nello stabilimento.
Gina Forcella parla come un libro ma mantiene un’umiltà che si evince quando ripete a più riprese di essere stata fortunata. «Solo per fortuna non sono mai stata fermata. Tante mie amiche sono state prese, portate in carcere, malmenate e insultate. Le hanno anche sputato addosso». E l’umiltà si tramuta in autoironia quando le si fa notare che di partigiani ne sono rimasti pochissimi: «Per questo venite da me. In mancanza di cavalli si fan correre gli asini». Ma in un attimo, quando si parla di memoria e di Fascismo, Gina si fa seria: «Tra i più giovani il rischio di dimenticare c’è, ma non credo che la memoria possa sparire, perché quella Storia è entrata dentro di noi ed è difficile toglierla dalla mente. Chi è cresciuto in famiglie come la nostra porta avanti questa memoria». E poi, con la lucidità e nettezza tipica di chi il Fascismo l’ha conosciuto, dice: «Se può tornare? Magari tornerà con un altro nome, ma sarà sempre Fascismo». Il suo 25 aprile Gina Forcella lo festeggia così, con un’intervista a casa e ricordi condivisi con la famiglia.
Staffetta sui monti a 14 anni
di Enrico Giustacchini

Il suo nome di battaglia era Gloria. A Elsa Pelizzari, quel nome fu assegnato quand’era poco più d’una bambina. Perché aveva solo quattordici anni quando entrò nella Resistenza come staffetta, contribuendo in modo significativo alla lotta di Liberazione in Vallesabbia. Oggi Elsa, splendida novantaduenne, è ospite della casa di riposo di Roè Volciano, suo paese natale. Presidente onorario dell’Anpi provinciale, fino a non molto tempo fa era frequente incontrarla in un’aula di qualche scuola mentre raccontava la sua straordinaria esperienza di impegno civile. Esperienza che è doveroso riproporre anche quest’anno, in occasione del 25 Aprile, con il prezioso supporto di una volontaria della Rsa, Maria Elisa Delai.
Per la sua precoce adesione agli ideali della Resistenza, fondamentale, sottolinea Elsa Pelizzari, era stata la lezione di don Angelo Bianchi, allora curato di Roè. Il sacerdote fu di grande aiuto ai giovani «ribelli per amore», sostenendoli senza mai perdere di vista gli insegnamenti della fede. Insegnamenti che avrebbero guidato Elsa per sempre: anche quando, alla bella età di settantatré anni, ha lasciato tutto per andare in Venezuela a dare una mano al figlio missionario, don Adriano, nella gestione di una casa d’accoglienza per la comunità indigena.
Tra i mille episodi che l’hanno vista protagonista durante la Resistenza, «Gloria» ama citare quello occorsole il 22 aprile, alla vigilia della Liberazione. «Ero stata incaricata di recarmi presso il comando di un’autocolonna tedesca in ritirata - ricorda -. Dovevo trattare la resa a nome del Cln, in cambio di un lasciapassare. Venni invece trattenuta in ostaggio: mi fecero salire sull’ultimo camion della colonna e fui condotta via con loro. L’autista aveva un atteggiamento severo; nei suoi occhi, tuttavia, traspariva un barlume di comprensione».
«Mi chiese quanti anni avessi - continua il suo racconto -; io glielo dissi. Mi sembrò stupito che fossi così giovane e coraggiosa. Cominciammo a parlare: mi confidò di avere anch’egli una figlia, che non vedeva da tanto tempo. Piano piano, sentivo le distanze tra noi diminuire; la sua voce si era raddolcita, e mi parve quasi che fosse commosso. All’ultima curva della strada, accertatosi di non essere visto, aprì la portiera e mormorò: ‘Raus!’, facendomi segno di saltar giù. Fu così che ebbi salva la vita».
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