Quella Pasquetta di altri tempi, dai Ronchi... al tram

Dove si andava (a mangiare «öf, salàm e capulì»), come ci si arrivava e cosa si faceva un tempo nel Bresciano a Pasquetta?
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Soleggiata o bagnata, per tanti nel cuore e nei desideri è sempre «öf, salàm e capulì», e se il bel tempo assiste, anche allegre scampagnate in compagnia, sotto cieli tersi di primavera. In una parola, Pasquetta.

Una realtà antica e recente insieme: in Italia, nel 1911, cessa di essere festa di precetto per la Chiesa salvo poi essere introdotta dal 1949 dallo Stato come giorno festivo per allungare le festività pasquali. E se si scorrono le cronache dal dopoguerra in poi e le memorie da bambini, ecco anche un simpatico modo per osservare i cambiamenti del consumo della festa, nei luoghi e nei modi.

Le mete, ritrovata la serenità dopo i tempi bui della guerra, sono semplici e vengono dalla tradizione; molte con il tempo si modificano nel senso, alcune scompaiono, divorate dall’espansione urbana, mentre ne nascono di nuove.

Per chi abita in città, per tutti gli anni ‘50 e ‘60, ci sono i Ronchi, punteggiati di orti, vigneti e mandorli in fiore. Si arriva a piedi fino ai Medaglioni e a San Gottardo, con le fisarmoniche che suonano valzer e mazurche per i balli della festa, mentre le prime radio portatili, dal 1955, fanno da nuova colonna sonora, insieme al vocio delle gare di bocce. Poi ci si spinge più su, con la costruzione prima della funivia che per l’occasione termina le corse a mezzanotte, poi della strada della Maddalena. E se piove, c’è il cinema.

Altre mete sono perdute per sempre, come i prati della Torricella, lungo la linea del tram Brescia-Gussago, o le passeggiate con “merendine” davvero “fuori porta”,  a Sant’Eufemia e Mompiano, oltre Porta Venezia, Porta Trento o Porta Milano. I gruppi di gitanti sono di venti-trenta persone, tra parenti e amici.

Poi si va più lontano, verso i sempre più accessibili laghi e valli, con ore di coda al rientro che diventano leggenda.

Per chi abita in provincia e per i bresciani via via più motorizzati ci sono le gite ai santuari mariani, nel '49 ancora con pellegrinaggi come da tradizione del Lunedì dell’Angelo, poi, col tempo, sempre più spazi verdi per stare in compagnia: la Stella a Gussago, la Madonna della Rosa a Monticelli Brusati, Montisola con la salita al santuario della Ceriola, la Madonna della Rocca di Sabbio Chiese o la Madonna del Rio a Salò. È l’occasione per fare anche del turismo nostrano. E allora nel ‘72 si raccomanda di non perdersi la visione del tipico pesce essiccato a Montisola, mentre i dati sulle affluenze di vacanzieri tedeschi e francesi ai laghi sono sempre più entusiastici.

I piatti del picnic? Alle origini è la sportina con pane, salame, uova sode (del venerdì) e insalatine, simboli di rinascita. Tutto steso sulla classica tovaglia sul prato e innaffiato da vinello, o servito ai licinsì o le trattorie dei Ronchi (Alpino, Citrìa, il Rosso, Garibaldi, Casinetto svizzero) e di Costalunga (Briscola e Campagnola).

Gli anni ‘70 e ‘80 sono il trionfo del ristorante con il “tutto esaurito”, mentre nel Duemila ormai ce n’è per tutti i gusti e con attenzione alla solidarietà: agriturismi, mercati, “pasquette tradizionali”, gare podistiche, musei e centri commerciali in caso di pioggia.

E se scompaiono dai Ronchi uova, salame e capulì, resiste la spongada camuna e il desiderio di un giorno di serenità nel verde ritrovato di primavera.

 

Monica Poisa

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