Piergiorgio Cinelli: «Dialetto e musica, l’incontro vive ancora

Questa intervista è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con L’Eco di Bergamo e nato in occasione del 2023, l’anno che vede i due capoluoghi uniti come Capitale della Cultura 2023. Ogni domenica i due quotidiani propongono l’intervista a due personaggi autorevoli del mondo culturale (nell’accezione più ampia), uno bresciano e uno bergamasco, realizzate da giornalisti delle due testate. Di seguito trovate l’intervista al personaggio bresciano. Per scoprire il contenuto dell’intervista all’omologo bergamasco invece, vi rinviamo a L'Eco di Bergamo.
Piergiorgio, l’incontro fra dialetto e musica ha una tradizione lunghissima.
Sicuramente. Penso alla canzone popolare: noi siamo nati in anni in cui la presenza della canzone popolare era ancora fortissima. Mi vengono in mente le osterie, i luoghi di lavoro, le feste nei paesi, ma anche la vita familiare intima con le ninne nanne e rime cantate. E se questo riusciamo a ricordarcelo persino noi, figuriamoci quale ruolo centrale ha avuto nei secoli l’incontro fra dialetto e musica. Adesso possiamo registrare quel che suoniamo e cantiamo, è un modo per mantenerlo. Un tempo invece c’era solo la trasmissione orale, la cultura popolare veniva tramandata così.
Una attitudine vivace e duttile. Tanto che anche oltre la canzone popolare storica, il dialetto è stato capace di dialogare anche con la musica che arrivava a ondate da fuori. A partire dagli anni ’60 del Novecento il dialetto si è misurato subito con il blues e con il rock. La voglia di mettere parole dialettali su un rock ’n’ roll ha contagiato interi decenni.
Ci siamo passati tutti. La nostra generazione è partita proprio da lì. Quando giro la provincia per concerti incontro sempre qualcuno che mi confessa «Anch’io mi ero divertito coi miei amici a mettere il dialetto su un pezzo inglese dei nostri anni». Tra l’altro, il dialetto bresciano è particolarmente adatto a ricostruire la metrica della canzone inglese, molto meglio di quanto accade con quella scritta in italiano. Saranno tutti quegli accenti finali così marcati.
E pensa che Dante, che conosceva la nostra provincia, a inizio Trecento scrive che il nostro dialetto è «barbarissimus» proprio per tutte quelle parole tronche, che lui non riesce a tollerare.
Vedi come cambiano le cose nei secoli...
Mettere parole del dialetto su canzoni italiane o inglesi, quindi. La parodia di pezzi famosi è stata una delle porte d’ingresso del tuo lavoro.
Sì, perché la cosa funziona. Ad esempio, Dario Canossi dei Lùf sottolinea spesso che far arrivare la parlata dialettale anche alle giovani generazioni che magari non ne hanno una immediata conoscenza, è più facile se si utilizza come veicolo una musica popolare orecchiabile. Lo stesso accade con le parodie: il testo in dialetto arriva con più facilità quando si appoggia a melodie che già sono nell’orecchio di chi ascolta. Che ne so: il tormentone dell’estate, il pezzo da classifica. Però, dobbiamo anche essere onesti fino in fondo.
Cioè?
Dobbiamo essere consapevoli del fatto che anche se la musica dialettale ha oggi una sua bella funzione, da sola però non può evitare quella trasformazione che da decenni abbiamo davanti agli occhi: il dialetto ormai non è più la prima lingua.
Non è più la prima lingua, ma forse proprio per questo raccoglie spesso un affetto profondo.
Questo è vero, lo vedo spessissimo nei miei spettacoli.
Nei quali, tra l’altro, sei sempre alla ricerca di nuove soluzioni. E nuove collaborazioni.
Se la parodia resta un pilastro a cui spesso mi appoggio, in questi anni ho lavorato anche su una formula più teatrale attraverso l’incontro con Roberto Capo. Ci misuriamo con poeti dialettali storici quali Bonazzoli, Regosa, Albrici e Canossi. Ma anche nelle canzoni propongo sempre più spesso pezzi originali, magari nati dalla collaborazione con un poeta come Armando Azzini. E poi c’è la ricerca di progetti sul territorio, non solo con altri musicisti o con altre band ma anche con mondi diversissimi dal mio. Penso ad esempio al lavoro che abbiamo fatto recentemente con Mattia Inverardi col pezzo «Andicapàt». Perché il dialetto è così: è una cosa viva, umana, e nei secoli non gli è mai piaciuto stare fermo.
A questo link l'intervista de L'Eco di Bergamo.
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