Picchiavano le figlie «perché non sono brave musulmane»: pena confermata

Papà, mamma e fratello di 4 ragazze pakistane condannati in appello a cinque anni per maltrattamenti
Il tribunale di Brescia - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
Il tribunale di Brescia - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
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La difesa lo aveva già detto in primo grado e ci ha riprovato anche in appello. «La valutazione della prova rispetto alle accuse mosse si deve fare in riferimento alla condizione culturale in cui sono avvenuti i fatti al centro del processo. Che queste ragazze non stessero bene è fuori discussione, ma perché cresciute in Italia con regole diverse da quelle dei genitori rimaste alle regole del Pakistan». In un momento in cui i reati orientativamente culturali sono al centro del dibattito pubblico, alimentato da un caso bresciano, la tesi difensiva non ha retto.

La decisione

E così la Corte d’appello di Brescia ha confermato la condanna a cinque anni di carcere per padre, madre e fratello – tutti con cittadinanza italiana - di quattro ragazze di origini pakistane, vittime di maltrattamenti perché ritenute dalla famiglia «non brave musulmane».

Gli episodi rimandano a schiaffi, pugni, tirate di capelli «perché le figlie rifiutavano di studiare ogni giorno le sure del Corano, per obbligarle a indossare abiti tradizionali della cultura pakistana» come riportato agli atti. «Mi dissero che se non avessi fatto come dicevano loro avrei fatto la fine di Sana Cheema» aveva raccontato in aula la più grande delle sorelle. La sentenza di condanna di primo grado è stata confermata, dopo una rapida camera di consiglio, come chiesto dal sostituto procuratore generale Pier Umberto Vallerin e dalle parti civili.

«Questa sentenza ha un peso notevole - commenta il difensore delle ragazze, l’avvocato Beatrice Ferrari. - É in linea con i dettami della nostra Costituzione e con quelli espressi dalla Cassazione, che specifica che il fattore culturale non può incidere sul dolo del reato di maltrattamenti. In questo caso parliamo poi di cittadini italiani».

Nelle motivazioni della sentenza di primo grado il presidente della prima sezione penale Roberto Spanò scrisse: «Gli imputati, nel respingere le accuse, non solo hanno negato ogni evidenza ma attraverso il goffo tentativo di mascherare le proprie radicate matrici culturali, hanno addirittura asserito di aver impartito alle figlie un’educazione più libertaria rispetto agli stessi modelli occidentali» aggiungendo: «I soggetti provenienti da uno Stato estero devono verificare la liceità dei propri comportamenti e la compatibilità con la legge che regola l’ordinamento italiano. L’unitarietà di quest’ultimo non consente, pur all’interno di una società multietnica quale quella attuale, la parcellizzazione in singole nicchie, impermeabili tra loro e tali da dar vita ad enclavi di impunità».

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