«Oltre il velo e chi semina odio parlateci e scoprite chi siamo»

Nell’ambito di «All-In» ieri in sala Libretti al GdB ospiti i nuovi bresciani e le loro testimonianze
ALL-IN PER ANDARE "OLTRE"
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Sono italiani a tutti gli effetti, con o senza passaporto in tasca. E a Brescia stanno costruendo un futuro da infermiera, architetto, ingegnere, fisioterapista... Sono uomini e donne, portano il velo o il turbante, hanno la pelle caffelatte o color della notte e sono nati in Marocco, negli Emirati o a Castelletto di Leno. Sono i (nuovi) bresciani che, ieri sera, si sono raccontati al pubblico riunito nella sala Libretti del Giornale di Brescia per l’incontro promosso nell’ambito di «All-In», progetto sull’inclusione promosso da Aib.

«Abbiamo messo insieme tanti attori per ragionare su un momento di forte cambiamento nel mondo del lavoro - ha approfondito il vicepresidente di Aib Roberto Zini -: di fronte alle migrazioni o si chiudono i porti o si capisce quanto valore possono apportare le differenze».

A presentare Raisa, Zouhair, Izham, Nesaiba, Gurkawal e Sandeep la collega Anna Della Moretta, autrice di una lunga serie di interviste - circa 260 - pubblicate sul GdB per esplorare i volti e le culture presenti nella nostra città. «Un viaggio di conoscenza reciproca - ha specificato il direttore Nunzia Vallini - che abbiamo intrapreso in un momento in cui l’integrazione era per qualcuno ancora un tabù. Un incontro che ha consentito di abbattere alcuni muri e di infrangere molti pregiudizi».

Muri che a volte sono rappresentati da un velo sul capo, come quello che Raisa indossa da quando ha sedici anni: «Molti ti giudicano da un pezzo di stoffa, negando la tua identità. Dopo le superiori - ha raccontato la laureanda in Scienze infermieristiche - ho cercato un lavoretto. Mi era stato offerto un posto da commessa, a patto che mi levassi il velo per non spaventare le clienti. Al mio rifiuto mi è stato proposto un ruolo in fabbrica, in modo da non essere vista. Da allora mi batto per far capire alla società che siamo persone e dobbiamo essere giudicate in base ciò che siamo e a che facciamo».

Le barriere. Secondo Zouhair, ingegnere emigrato in Italia a 19 anni, è il «vizio» della politica di interferire nel fenomeno migratorio a fare spesso danni. «I linguaggi divisivi - ammonisce - generano odio. Prima dell’11 settembre ero un marocchino, poi sono diventato l’islamico, il musulmano. Ma io ero sempre la stessa persona». Izahm è nato negli Emirati da famiglia pakistana, ma è in Italia da quando aveva solo un anno. A distanza di quasi vent’anni non ha ancora un passaporto italiano, a differenza del fratello. «Ho vissuto esperienze negative a scuola - racconta - e ho reagito alla percezione della differenza cercando di nascondermi. Ho sentito a lungo, sulla mia pelle, il peso della diversità e non ha aiutato il fatto che mio fratello, a 18 anni, ha ricevuto un documento italiano, mentre io sono ancora un cittadino straniero».

Non accade sempre, non accade ovunque. Nesaiba, «straniera della Bassa», vicina alla laurea in Fisioterapia, porta il velo fin da piccola. «Non ricordo nessun commento maligno, nessuna presa in giro. A Castelletto di Leno - racconta - le signore fermavano me e la mia gemella e ci dicevano: "che bele scéte"». A dare forza a Gurkawal, giovanissimo sikh, sono stati invece i compagni di classe, letteralmente insorti contro un docente. «Mi ha insultato per il turbante - racconta timidamente - e mi ha molto ferito. Così i miei compagni hanno deciso di presentarsi tutti con un turbante colorato: il professore si è scusato e da allora ogni anno, in quella stessa ricorrenza, si presentano tutti a scuola col turbante».

«Per me è stato più complicato - gli fa eco Sandeep - e a un certo punto ho addirittura pensato di fare ritorno in India. Oggi frequento il secondo anno di Ingegneria dell’automazione. Sono orgoglioso di me e orgoglioso di essere bresciano». L’iniziativa. A volte bastano gesti per costruire ponti e a volte servono ponti per fare comunità. «Arte, un ponte fra culture» è quello che Giosi Archetti ha iniziato a costruire undici anni fa quando, volontaria del Fai, ha intuito la «fame» di cultura serpeggiante fra la popolazione straniera residente a Brescia. «I migranti - ha spiegato - vivono spesso un senso di spaesamento e quindi tendono a rinchiudersi in circoli ristretti e piccole comunità, chiudendosi all’integrazione. Noi abbiamo pensato di offrire loro uno spunto per conoscere Brescia e un volano per farla conoscere ai loro connazionali».

Al primo corso per mediatori artistico-culturali hanno partecipato persone da 17 Paesi diversi e oggi quell’esperimento è un progetto adottato dal Fai a livello nazionale, sul modello bresciano. Oggi a coordinare quell’esperienza c’è Atanasio Vlachodìmos, che ha origini greche: «Sono convinto - afferma - che la diversità culturale arricchisca, ma che sia la bellezza ad unirci».

Ecco la registrazione integrale dell'incontro:

 

 

 

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