«Nella foto sul New York Times il dolore e la fatica di tutti»

Monica Falocchi, caposala terapia intensiva del Civile racconta com'è nata la foto di copertina del Magazine
Monica Falocchi, sulla cover del New York Times Magazine - Foto © www.giornaledibrescia.it
Monica Falocchi, sulla cover del New York Times Magazine - Foto © www.giornaledibrescia.it
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Forse c’era un presagio nella data in cui, tanti anni fa, aveva preso servizio come infermiera. Era un 11 settembre, l’11 settembre del 1990. Undici anni dopo New York sarebbe stata dilaniata dall’attentato alle Torri Gemelle. Poco meno di 19 anni più tardi, invece, la stampa della Grande Mela le ha reso omaggio utilizzando una sua immagine per la copertina del New York Times Magazine.

Il volto di Monica Falocchi, 48 anni, originaria di Breno, residente in città e dal 2006 caposala della Terapia intensiva del Civile, è diventato il simbolo di tutti gli infermieri del mondo. Quando, in ospedale, le venne scattata la foto, non aveva idea di dove sarebbe finita. Si trovava nel pieno di una delle tante, interminabili giornate d’emergenza. Le era addirittura parso inopportuno perdere del tempo con la troupe.

Invece... «Invece il mio è diventato il volto di una categoria. La notorietà non mi interessa affatto. Ma spero che le mie parole possano contribuire a dare dignità alla nostra professione. Un lavoro che non svolgiamo solo in tempi d’emergenza, ma 365 giorni l’anno. Abbiamo una responsabilità enorme». E, sotto emergenza-Covid, una mole di lavoro immane da svolgere. Riesce a quantificarla? «Almeno 13 ore al giorno: ho compresso in due mesi il monte-ore di tre».

Non solo l’Italia: il mondo intero era impreparato ad affrontare una crisi del genere. Ad essere alle spalle è solo la «prima emergenza». La pandemia non s’è placata. Cosa è necessario che non venga dimenticato? Che nel nostro Paese la cura viene garantita. Che siamo la spina dorsale delle strutture ospedaliere. Che i tagli alla sanità hanno ridotto il personale sanitario a numeri insufficienti. Pochi, dunque, ma preziosi. Il lavoro di voi infermieri, assieme al vostro coraggio, è diventato un esempio. Non basta. Potremmo fare di più. Abbiamo un ruolo fondamentale per la salute e il benessere delle persone. Vorrei che fossimo coinvolti nella formazione, nell’educazione sanitaria dei cittadini. Nella sua drammaticità, questa è l’occasione migliore per darci più spazio. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle cosa significhi prendere precauzioni in situazioni in cui la possibilità di contagio è altissima. Lo abbiamo vissuto oggi con il coronavirus, ma non dimentichiamo che gli infermieri sono da sempre in prima linea contro mille patologie infettive: meningite, tubercolosi, Hiv... Tornando al Covid: vorrei che fossimo noi infermieri a spiegare alla gente come si mantiene il distanziamento sociale, come si indossa una mascherina, in quali situazioni vanno indossati i guanti. Attorno vedo parecchie cose che non vanno. Anche, se non soprattutto, in questa Fase 2.

Potesse parlare direttamente alle istituzioni, cosa chiederebbe? Di risolvere il problema degli organici negli ospedali. Di prendere in considerazione la nostra situazione retributiva. Siamo gli infermieri meno pagati d’Europa. C’è un debito umano da sanare. Per garantire il servizio si fanno salti mortali. Le nostre vite sono state stravolte. Siamo fatti di professionalità, ma pure di sentimenti ed emozioni. Vorrei, infine, che la nostra professione venisse riconosciuta nel novero di quelle «usuranti».

Adesso che, almeno dal punto di vista del sovraccarico delle strutture ospedaliere, il peggio sembra passato, qual è il sentimento dominante? «Non posso di certo esultare. Non è un successo. Abbiamo perso 39 colleghi in Italia. È altissimo pure il numero dei medici morti». Negli scorsi mesi, quando usciva dall’ospedale, come riusciva a staccare mentalmente quel tanto che bastava per cominciare, di lì a poche ore, un’altra giornata in trincea? «Non mi piace parlare di trincea. Non paragono la pandemia a una guerra. Non sono sposata, sono zia di cinque splendidi nipoti. Ho tre sorelle, una madre, molte amiche che mi hanno supportata. C’era chi mi puliva casa, chi mi riempiva il frigorifero, chi dava da mangiare alla mia cagnolina. Ciascuno di noi, per ragioni di sicurezza, si è un po’ auto-isolato. Non avere un partner ha avuto il suo peso. Ma di sicuro non posso affermare che mi siano mancati supporto e amore».

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