«Mio papà Idris, impegnativo ma unico. È sempre stato più avanti degli altri»

Binta, una delle quattro figlie del giornalista morto a 72 anni ricorda: «Mi ha insegnato ad essere forte»
Idris nello studio del «Telegiornale multilingue», uno dei suoi tanti progetti © www.giornaledibrescia.it
Idris nello studio del «Telegiornale multilingue», uno dei suoi tanti progetti © www.giornaledibrescia.it
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Scorrono i titoli di coda sulla vita mai banale di Idris. Un film lungo 72 anni, iniziato in Gambia, proseguito in Senegal, poi ambientato in Italia, tra Roma, Perugia e soprattutto Brescia. Diventata casa sua oltre mezzo secolo fa e dove la pellicola della vita si è conclusa in un letto d’ospedale. «Piangiamo ma soprattutto celebriamo la sua straordinaria vita, la sua sagace genialità, il suo cuore limpido e puro, il suo sensazionale carisma, il suo amore per l’arte, la musica, lo sport» scrive la famiglia in una nota.

«In una parola, papà era unico» racconta Binta, la seconda delle quattro figlie avute dal giornalista e opinionista tv deceduto dopo 20 giorni di ricovero in Poliambulanza.

Il destino di suo padre era segnato dalla malattia o la situazione è precipitata improvvisamente?

«Purtroppo è stata una cosa improvvisa. Papà non stava bene da alcune settimane e diceva di avere dolori alla schiena. Hanno deciso per il ricovero a causa soprattutto della glicemia alta. Io e mia sorella siamo arrivate a trovarlo un pomeriggio e dormiva. Quando si è svegliato non parlava più e ci siamo spaventate. I medici hanno detto che ha avuto una serie di ischemie che non sappiamo da cosa siano state causate. Forse da una vasculite».

Idris si è reso conto di quello che stava per accadere?

«Una settimana fa io e lui ci siamo guardati e capiva la situazione in cui si trovava. Il suo problema era il livello di glicemia e i medici hanno spiegato che doveva essere più regolare con il cibo, visto che lui non mangiava molto. Mia sorella scherzando allora ha detto che lo avrebbe fatto diventare vegano. Lui non parlava già più, ma continuava a ripetere di no con le mani. La domenica poi è andato in coma e non si è più ripreso».

Che cosa vuol dire essere la figlia di Idris?

«È stato impegnativo perché papà era impegnativo. Aveva una grande intelligenza. Mio padre era un signore e se ne è andato da signore. Non poteva più parlare, gli hanno tolto la parola, ma con lo sguardo e con la sua mano fino a quando ha potuto, è stato con noi. Mi ha insegnato tanto. In inglese mi ripeteva spesso: "Noi siamo forti più del diavolo". Ci ha insegnato ad essere forti, indipendenti e coraggiose e lo ringrazierò sempre per come ci ha fatto crescere».

Binta, una delle figlie di Idris - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
Binta, una delle figlie di Idris - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it

E le ha trasmesso anche la passione per il calcio e l’amore per la Juventus?

«Io sono milanista da sempre. Sono nata nel 1979 e come tanti della mia generazione sono cresciuta con i miti di Van Basten, Gullit e Rijkaarde quindi era quasi automatico diventare milanisti. Ha capito la mia scelta e mi ha pure portata più volte a Milanello per farmi conoscere i miei idoli».

Oggi in tanti ricordano quanto suo padre fosse lungimirante e pieno di idee.

«È sempre stato avanti. Pensiamo solo al matrimonio con mia mamma. Non era stato facile. Parliamo di un matrimonio misto celebrato più di 40 anni fa. Fu una scelta all’epoca controcorrente e rivoluzionaria, ma sono stati entrambi intelligenti. Nessuno ha mai voluto prevaricare sull’altro anche nell’educazione di noi figlie.

La prima qualità che le viene in mente parlando di suo padre?

«Era un uomo di ampie vedute. Prendiamo il funerale: lui era musulmano, ma teneva anche alla tradizione cattolica e italiana, con la camera ardente e le visite di chi gli voleva bene».

Diceva: «sono stato il primo nero bresciano famoso».

«Parlava dialetto, si sentiva bresciano ed è stato il primo anche a cercare di abbattere il muro delle diversità. Del suo arrivo in Italia raccontava che un signore lo aveva accolto e aiutato, ma parlava tanto degli aspetti positivi della sua vita e non delle difficoltà che sicuramente ha avuto».

Il difetto più grande di Idris?

«Era testardo. Non ascoltava niente e nessuno. Andava per la sua strada».

Come viveva il fatto che la Tv, che negli anni Novanta lo aveva fatto conoscere al grande pubblico, negli ultimi tempi lo aveva invece dimenticato?

«Sapeva che in quel mondo un giorno sei up e quello dopo sei down, ma non si è mai lamentato. Ha sempre accettato quello che arrivava. Amava dire che quello che la vita ti toglie, poi ti darà. E a noi figlie ricordava sempre: "Quello che conta è il finale"».

E il suo, che finale è stato?

«Il suo finale è stato da grandissimo. Perché papà è stato unico fino alla fine». 

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