L’utensile-schiena tra lavoro e riposo

L’origine longobarda del termine e le sue metafore
Ci ricordiamo della schiena solo quando ci fa male
Ci ricordiamo della schiena solo quando ci fa male
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È proprio come per gli utensili: finché funzionano, finché ce ne possiamo servire meccanicamente, nessuno sembra interrogarsi sulla loro esistenza. Li usiamo e basta, come occhiali inforcati sul naso. È invece quando l’utensile non funziona (il telecomando che fa cilecca, l’occhiale che si appanna, il cerino che non sprigiona fiamma...) che lo guardiamo con attenzione. Che ci accorgiamo che esiste. Che lo interroghiamo.

Idem per la schiena. Ci accorgiamo che esiste esattamente nel momento in cui smette di essere un efficiente utensile: quando fa male e non ci tiene più su. In dialetto bresciano schiena si dice semplicemente schéna, termine che proprio come l’italiano deriva dal longobardo skena. E come spesso accade in dialetto, una singola parola diventa metafora di un mondo. Nel nostro caso, si dice schéna e si pensa al lavoro. Al lavoro fisico e faticoso.

Già nel ’700 - nel Vocabolario edito dai seminaristi - l’espressione laorà de schéna indicava il lavorare con impegno, il mettercela tutta. Il metterci la gobba. Un’idea di forza che si ritrova nel detto fà schéna usato per indicare l’irrobustire (el formài de gràna el fà schéna). Al suo opposto, il termine può essere usato per indicare la scarsa voglia di lavorare. Numerose qui le metafore: schéna falàda, schéna de védre, schéna de vigile (non me ne vogliano gli amici pizzardoni: mi limito a citare la saggezza popolare...) L’espressione dórmer en schéna indica invece il riposare supini. Lavoro semplice. Almeno finché l’utensile scheletrico non si inceppa.

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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