Lo shopping in città non parla solo bresciano

Dietro il bancone dei negozi le storie di Andrea, Mathieu, Erica, Anna e Laura
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Il mondo è tutto lì, in una stanza. Tra un libro antico e un best seller, un mappamondo e i tavolini per il brunch. Andrea la abbraccia con lo sguardo poi mormora. «In fondo non serve andare neppure troppo lontano. Qui, in pochi metri quadrati, puoi fare milioni di chilometri. Sfogliando le pagine di un libro».

Eppure Andrea, come tutte le ragazze, e i ragazzi, che vivevano oltre la Cortina di ferro, quando cade il Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, ha un solo desiderio: vedere l’Occidente. Dalla natia Cecoslovacchia - oggi Repubblica Ceca e Slovacchia - parte con un’amica. Arriva in Italia. Venezia, Verona, Milano. E poi Brescia. Erano i primi anni Novanta. Pochi mesi ed è di nuovo qui. Fa la baby sitter per i titolari di una libreria. Oggi in quella libreria ci lavora. Da parecchi anni. Si schermisce, con pudore, quando le spieghiamo che vogliamo raccontare la sua storia. Come quella di tanti altri stranieri, giunti da ogni latitudine, che dietro il banco di un negozio, di un bar, tra gli scaffali colmi di libri hanno trovato un’occupazione. Percorrendo in lungo e in largo il perimetro cittadino ne incontri tanti. L’animo glocal di Brescia - arrivano da lontano ma sono perfettamente integrati - si rivela in questo melting pot di lingue e culture in cui ti imbatti, sempre più spesso. Basta andare oltre il luccichio delle vetrine, chiedere «conosci commesse, bariste, straniere?» e si apre un universo. Di cui, solo in parte, immagini l’ampiezza.

L’Occidente di Mathieu Verbrugge è Bruxelles. Per il nome del suo locale, il «Bel e Bu» di via Aldo Moro, a Brescia Due, ha preso in prestito il nostro dialetto. Ambiziosamente, e semplicemente, «bello e buono». «Ho venduto casa in Belgio e ho investito tutto nel locale». Brescia nel suo destino, in origine, è entrata per amore. Mathieu ha lavorato nell’azienda di famiglia, in Belgio, «produciamo piastrelle», ha studiato fisioterapia e decorazione di interni. Nel 2008 approda a Brescia. Prova a fare l’agente di commercio. «Dopo quattro anni ho capito che pur lavorando dodici ore al giorno non riuscivo ad avere guadagni sufficienti». Si butta in una nuova avventura: il Bel e Bu. L’atmosfera è decisamente europea. «Le fette sfiziose del menù, le insalate, strizzano l’occhio al mio Paese d’origine. Tutti i giorni cerco di proporre una zuppa etnica».

Certo la burocrazia italiana è una brutta bestia. «Il locale funziona, ma comunque fai fatica ad assicurarti uno stipendio. E sono qui quindici ore al giorno». Galeotta fu la passione anche per Erica. Ventinove anni, è vice responsabile del negozio Zara del centro.

«E’ un caso che studiamo a scuola e in università». Già perché Erica è spagnola come la catena per cui lavora. Di Valencia. A Brescia ha fatto l’Erasmus . Si è fidanzata. «Ho deciso di tornare qui. Prima ho cercato un’occupazione nel mio ambito, sono laureata in Economia. Tutto quello che trovavo erano stage non remunerati. Mandavo curriculum. Alla fine ho trovato Zara. Ho visto che c’erano possibilità di crescita».

Attraversi la strada, entri alla Coffea di corso Zanardelli. La tazzina di caffè fumante te la serve Anna, moldava. E’ una delle dipendenti. «Vivo a Brescia da tredici anni - racconta - . In Moldavia ho studiato all’istituto alberghiero. Ho lavorato in un negozio di abbigliamento. A Brescia avevo un’amica. E all’inizio ho trovato occupazione come badante». Anna ha un figlio di diciannove anni, avuto da una precedente relazione. «Adesso abito in città. Mi sono sposata con un italiano». Pochi passi, c’è il bar Mokasol di corso Magenta. Laura ha appena staccato. Si è tolta il grembiule e sta per andare a casa.

«Sono arrivata a Brescia con la mia famiglia da El Salvador». Sogna di aprire un ristorante. Un bar. «Ho studiato all’alberghiero». A Laura siamo arrivati indirizzati da Carlotta. Lei è italianissima. E’ il suo datore di lavoro, titolare di un negozio, di abbigliamento, accessori e articoli per la casa in corso Magenta che è straniero. Cinese per la precisione. Storia curiosa, la sua. «Lavoro qui da un anno. Mi sono diplomata alla Pastori. Avrei voluto fare la veterinaria. Mi sono presa un anno sabbatico in attesa di capire se iscrivermi oppure no all’università. Ho saputo che cercavano una ragazza. Mi hanno assunto». E, cosa rara, di questi tempi, quasi quanto un’italiana alle dipendenze di un cinese, con un contratto a tempo indeterminato.

Paola Gregorio

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