Le pèche del zìo gioàn sulla giusta strada

«Guardi che le ho mandato una Pec...». L’interlocutore al telefono parla di Posta elettronica certificata per inchiodarmi alle mie responsabilità. E io mi sento sotto accusa proprio come da bambino, quando l’aspro zìo Gioàn - stava nella cascina dei nonni, la guerra, la prigionia e l’esser rimasto pöt non ne avevano certo ammorbidito un carattere già di per sé spigoloso - tornò dai campi furioso, incolpandomi di avergli rubato qualche gràta de ùa.
Ai miei genitori increduli che gli chiedevano quali prove avesse, lui sentenziò: «G’hó cunisìt le pèche!». Intendeva dire che aveva riconosciuto come mie alcune impronte lasciate sul terreno. Neanche fosse Sherlock Holmes... In realtà nel nostro dialetto il termine pèca significa sia orma, impronta, sia difetto, mancanza, tacca (come l’ammaccatura sulla lama di un coltello). Insomma: qualcosa di sbagliato che lascia un segno, che permane, che ti resta addosso. Così la pèca si conferma parente stretta del pecàt, il peccato, il pesante fardello che ognuno di noi si porta sulle spalle. «Peccatum» è l’origine latina. Però i Vangeli sono scritti in greco antico e usano la parola «hamartìa». Che significa sì sbaglio, errore, ma che originariamente indicava il mancare un bersaglio, lo sbagliare direzione, l’imboccare la strada sbagliata.
Insomma: il peccato latino ti resta appiccicato, quello greco ti invita a rimetterti in marcia. Ma stavolta scegliendo la strada giusta. Povero interlocutore al telefono, ora risponderò alla sua Pec. Povero zìo Gioàn, da oggi lo ricorderò con un sorriso. Povera gràta de ùa, prometto che non ne ruberò mai più.
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