Le motivazioni dell'ergastolo al marito di Mina Safine, bruciata viva

Si legge nelle motivazioni della sentenza del giudice Spanò: «Dichiarazioni a dir poco autolesionistiche dell'imputato»
Abderrahim Senbel al banco degli imputati in tribunale a Brescia - © www.giornaledibrescia.it
Abderrahim Senbel al banco degli imputati in tribunale a Brescia - © www.giornaledibrescia.it
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«Si è in presenza di una ricostruzione storica affidabile, fondata sul coerente intreccio tra quanto dichiarato dalla stessa persona offesa nell’immediatezza del fatto ed il contributo conoscitivo versato in udienza dai testi, cui devono aggiungersi il solido puntello fornito dalla consulenza medico-legale e le dichiarazioni a dir poco autolesionistiche fornite dall’imputato». Lo scrive il presidente della Corte d’Assise Roberto Spanò nelle motivazioni della condanna all’ergastolo di Abderrahim Senbel, ritenuto il responsabile dell’omicidio della moglie Mina Safine, la 45enne morta il 27 settembre 2020 in seguito alle ustioni riportate sul 90% del corpo una settimana prima, a casa, al sesto piano di uno dei condomini di via Tiboni, ad Urago Mella in città.

L’uomo si è sempre difeso sostenendo che fosse stata la moglie a darsi fuoco. «Dalla consulenza medico-legale è emerso che l’ustione più acuta si trovava sotto il mento della vittima, a dimostrazione che il fuoco aveva avuto origine “nella parte anteriore alta del volto», per poi propagarsi nelle altre aree del corpo. L’unico punto della cute di Safine risultato integro era quello dei solchi sottomammari e dei cavi ascellari, il che consente di affermare che la vittima al momento del fatto non aveva, con intento autolesionistico, proiettato il braccio in direzione della parte superiore del capo onde innescare ella stessa la fiamma» si legge in sentenza.

La dichiarazione

L'appartamento al settimo piano di una palazzina in via Tiboni, in città, era stato sottoposto a sequestro - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
L'appartamento al settimo piano di una palazzina in via Tiboni, in città, era stato sottoposto a sequestro - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it

I giudici poi aggiungono: «Vi è poi un particolare che, anche ove considerato autonomamente, costituisce una vera e propria pietra tombale sulle sorti del processo. L’imputato ha infatti asserito che Mina, dopo essersi data fuoco, aveva appoggiato sopra la lavatrice, “a nemmeno un metro di distanza”, l’accendino con cui aveva innescato la fiamma. A suo dire, tuttavia, non si trattava dell’accendigas di colore fucsia rinvenuto dagli inquirenti sull’elettrodomestico, bensì l’accendino di dimensioni ridotte tipo “Bic” che si trovava in una ciotola in prossimità dei fornelli della cucina a gas. Si tratta di due strumenti differenti poiché il primo, diversamente dal secondo, permette all’agente di tenere a distanza la mano e il gas, impedendo in tal modo di ustionarsi durante l’accensione.

È evidente - prosegue la sentenza - che il Senbel, nel cercare di accreditare la tesi del gesto autolesionistico della moglie, abbia fatto riferimento allo strumento più funzionale allo scopo, ma a quel punto, non sapendo spiegare il perché sulla lavatrice fosse stato trovato l’accendigas fucsia, ha evocato l’eventualità di un inquinamento probatorio da parte di fantomatici soggetti, sollecitando la Corte a disporre indagini sul punto».

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