Le bóre a rotoloni e le orecchie del sòl

Tra lavanderie e boschi le capriole del linguaggio
Un'antica tinozza di legno (sòi) dove fare il bucato © www.giornaledibrescia.it
Un'antica tinozza di legno (sòi) dove fare il bucato © www.giornaledibrescia.it
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Ma anche voi ricordate il modo di dire orècia de sòi? L’espressione faceva riferimento alle tinozze di legno (i sòi): sul bordo superiore avevano due grossi maniglioni che per forma potevano anche assomigliare a orecchie ma che erano - naturalmente - indifferenti ad ogni richiamo sonoro.

E così faceva orècia de sòi chi fingeva di non sentire, di non capire. Le orècie de sòi mi sono tornate in mente grazie alla mail che il nostro lettore Giovanni da Concesio ci ha mandato dopo la rubrica sulla bögàda. Ci racconta di quando da piccolo in casa c’era una bögadéra (lavanderia) piena di sòi con acqua bollente e di quella volta che quasi si ustionava per averne stappato uno togliendo il burù. Burù (che altrove in provincia si dice anche borù) è un termine che mi intriga molto. Indica tappi, tasselli e cilindretti di legno.

E cilindri di legno, pur se molto più grossi, sono anche le bóre, i tronchi d’albero (pensate ad un abete completamente sramato che attende di essere trasformato in assi in segheria). Il termine è legato ad una radice alpina prelatina (*bor) che indica corpi rotondi (il dialetto parla di borèle de-i ócc e di borèle de-i sönöcc per indicare bulbi oculari e rotule). Ma restiamo ai tronchi. Una volta tagliati nei boschi venivano fatti rotolare a valle. E infatti ’ndà a borèle lo fanno i bambini di montagna quando rotolano lungo un piano scosceso (non la capriola, quella è il cülmartèl perché si atterra battendo con la schiena/sedere).

Altrove al cadere rotolando il dialetto bresciano si riferisce quando dice ’ndà a birulù oppure burlà só. Quante cose sa raccontarci la parola. Basta non fare orècia de sòi...

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