La trappola della tuta

Ho passato i quasi cinque decenni della mia vita a farmi vanto di non indossarla mai. Anche durante le ore di educazione fisica a scuola, ogni scusa era buona per dimenticarmela a casa. A ogni piè sospinto non ho perso occasione per sbeffeggiare il look di quel popolo di uomini di mezza età che il sabato se ne vanno a fare la spesa con la tuta. Esatto, con la tuta.
Quell’orrendo pigiama da esterno accettabile soltanto in palestra e improponibile in qualsiasi altro luogo. Poi è cambiato tutto. I primi giorni di telelavoro, pardon smart working, me ne stavo al computer con pantaloni o jeans abbinati, come sempre nella mia esistenza, a camicia e maglione. Poi i pantaloni hanno lasciato spazio a quelli della tuta. Sono in casa, mi sono detto, un po’ di comodità ci sta. Dopo qualche giorno i maglioni sono stati sostituiti dalla felpa, sempre abbinata alla camicia. Guardandomi allo specchio mi sono reso conto di essere uno strano ibrido, come quegli anziani che d’estate mettono i bermudini abbinati alle scarpe classiche con calzino a mezzo polpaccio.
Ho rinunciato alla camicia, non accadeva da quando avevo sei anni. Da allora sono sempre in tuta. È come se avessi scoperto una nuova dimensione estetica, una morbida comodità che finisce per avvolgerti nel profondo. Tra le corsie del supermercato li vedo gli sguardi deplorevoli. Io sono orgoglioso della mia scelta come ogni neofita convertito. Convinto come una concorrente di miss Italia che parla di pace nel mondo. Forse è meglio che torni a mettere la camicia.
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