«La sicurezza è figlia di pene giuste e che rieducano»

Sul sito internet del Tribunale di Brescia figura ancora come presidente. Ma a palazzo tutti sanno che è solo una questione di giorni e di una laboriosità tutta istituzionale a stare in sincrono con gli accadimenti. Dopo otto anni alla guida della Sorveglianza del distretto, la dottoressa Monica Lazzaroni - lo stabilisce la legge - ha dovuto fare un passo di lato e lasciare la presidenza ad altri.
In via Lattanzio Gambara, ma anche a Canton Mombello e Verziano e nelle carceri di Bergamo, Mantova e Cremona è trend topic del momento. A tanti, la notizia, non ha fatto certo piacere. In attesa dell’assegnazione dell’incarico al nuovo presidente, al posto che era suo c’è Gustavo Nanni, in qualità di vicario.
Presidente, e adesso? «Si chiude un capitolo, ma non la storia. Non sarò più presidente, ma sarò comunque lo stesso magistrato di prima. Non basta una vita per essere "imparati", il ruolo non aveva cambiato le mie prospettive e perderlo non apre in me alcuna ferita. Continuerò a lavorare con la stessa dedizione di prima».
Continuerà al Tribunale di Sorveglianza? «Certo. Sto partecipando ad un concorso, ma il mio posto per ora è in questo ufficio, in questa città. Avrei potuto provare altrove, tentare nuove esperienze. Sono del parere che chi sa fare una cosa è bene che continui a fare quella. La società pullula di persone che si inventano in ruoli che non sono i loro e che non hanno l’umiltà di ammetterlo. E i risultati si vedono».
A proposito di risultati. Con che bilancio si chiude il suo mandato? «Sono state fatte tantissime cose, in condizioni spesso proibitive. Penso alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e alla transizione alle Rems, resa complessissima dalla mancanza di strutture. Per venire ai tempi più recenti ed attuali non posso non soffermarmi sull’amministrazione carceraria in tempo di Covid. Abbiamo dovuto lottare contro il tempo, maneggiando una bomba biologica pronta ad esplodere. Siamo riusciti a far funzionare le cose. La prima udienza da remoto, organizzata a fine febbraio del 2020, la sera per la mattina dopo; giusto per citarne una. Ricordo anche le corse all’alba per procurare mascherine e disinfettanti. Ci siamo assunti delle responsabilità abbondantemente al di là della nostra funzione. Per gestire il distretto giudiziario nell’epicentro della pandemia, del resto non c’erano alternative. Abbiamo fatto squadra e i risultati si sono visti».
Nel suo bilancio c’è spazio per rimpianti? «Mi è mancato vivere di più il carcere. Un magistrato di sorveglianza deve conoscere la sua realtà a fondo per dare risposte che servono».
Oggi cosa manca all’esecuzione penale? «La certezza delle pena è un mantra. La società però sembra interessata solo al processo e alla condanna, mentre la sua esecuzione cade nell’oblio. Quello che succede dopo interessa a pochi e tanto meno interessa la fine che fanno coloro che hanno saldato il loro conto con la giustizia. Ma il problema è proprio qui: bisogna capire che la sicurezza e il recupero sociale sono facce della stessa medaglia. La prima c’è solo se c’è anche il secondo».
La pena, così com’è eseguita, assolve alla sua funzione rieducatrice? «L’unica pena certa è quella che rieduca, quella giusta. E spesso giusta non è, perché spesso in carcere i diritti delle persone non sono garantiti. Come si fa a pretendere l’osservanza delle leggi da parte dei detenuti se sono costretti ad espiare la loro pena in condizioni di illegalità?»
Qual è la strada da percorrere? «La giustizia riparativa è una soluzione che va coltivata. Vittima e carnefice appartengono a mondi paralleli che non si incontrano mai. Ma vanno fatti incontrare. Bisogna consentire all’autore di un reato di riparare. Oltre che consentire alla vittima di ottenere un ristoro, significa anche compiere un primo decisivo passo verso il recupero del reo. Permettergli di capire il dolore procurato è necessario per metterlo nelle condizioni di non ripetersi».
La recidiva è uno dei ostacoli più duri. Come lo si supera? «Il carcere è criminogeno, lo dice la statistica: ogni dieci condannati che scontano la pena in cella, sette tornano a delinquere. Se la condanna è scontata attraverso misure alternative la proporzione si ribalta. Questa secondo me è la stella polare da seguire e non solo perché la recidiva costa 3 miliardi di euro l’anno al Paese, ma proprio per il fabbisogno di sicurezza che la società invoca e che affida, secondo me sbagliando, solo al carcere».
Ai primi punti dell’agenda Draghi c’è la riforma della giustizia. Siamo sulla strada giusta? «È senza dubbio positiva la priorità accordata alla funzione, il recupero della centralità di alcuni principi, a partire proprio dalla funzione rieducativa della pena. Ho letto di investimenti significativi e dell’intenzione di potenziare le misure alternative. Ciò che conta è che queste ultime però siano riempite di contenuti».
Di riforma si parla anche con riferimento al suo mondo, alla magistratura. Che idea si è fatta dei recenti scandali? «Un tempo l’associazionismo in magistratura era luogo di autentiche passioni sui temi della giustizia, della cultura giuridica. Oggi non è più così. Stiamo assistendo ad una deriva verso un carrierismo spietato. In termini di credibilità siamo al minimo storico. Credo che ci abbiamo messo del nostro. Serve una profonda operazione di autocritica e pulizia. Non possiamo affidare le nuove generazioni a professionisti capacissimi, ma che non hanno requisiti etici e morali all’altezza degli incarichi che rivestono».
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