La salamina, fra rito e puzza di bruciato

Una lezione che ci parla delle umane genti
Pane e salamina (archivio) - © www.giornaledibrescia.it
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Cuocere una salamina è un gesto che ha una propria sacralità, e i bresciani lo hanno sempre saputo. Una sacralità che risuona nel profondo del nome stesso con il quale il nostro dialetto - con familiarità e rispetto insieme - indica l’insaccato che, cotto sulle braci, è destinato ad accompagnarsi a pane o polenta: el strinù.

Innanzitutto il verbo strinà può essere tradotto con l’italiano «bruciare» o «bruciacchiare». Da qui viene anche l’espressione sènter udùr de strì utilizzata quando si ha la percezione che qualcosa stia per andar storto (e nell’aria si sente - letteralmente - «puzza di bruciato»). Ma si usa dire anche che se brüsa la càsa dei vizì, apó la tò la sènt de strì («se va a fuoco la casa del vicino anche la tua puzzerà di bruciato») quasi a sottolineare che le sorti delle umane genti sono indissolubilmente intrecciate fra di loro, che non ci si salva mai da soli (il Covid-19 non ci ha insegnato nulla?), che guardare l’altro in difficoltà e rivolgergli un lapidario strözet (traducibile letteralmente con un «spòrcati di fuliggine») è cosa quantomeno miope.

Ma torniamo alla nostra amata salamina. Il termine strinù e il verbo strinà si legano al latino. Non solo al verbo «ustio» che significa brucio, cauterizzo. Ma soprattutto al sostantivo «ustrina», che è il termine con il quale gli antichi romani indicavano non solo l’atto generico del bruciare ma anche il luogo destinato ai roghi sacri, quelli destinati alla cerimoniale cremazione dei defunti o delle offerte votive destinate agli dei. Insomma: non solo cuocere, ma celebrare un rito.

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