La sàl e la zét: il senso (e il sesso) del tradurre

Se da un vocabolario all’altro le parole cambiano genere
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Tradurre da una lingua all’altra è come la vita: richiede rispetto. Possono andarne di mezzo anche questioni di sesso (inteso come genere), roba da affrontare con attenzione e sensibilità.

Se ci limitiamo a confrontare fra di loro l’italiano e il dialetto bresciano ci viene risparmiata - quanto meno - la complicazione del genere neutro, ma tra maschile e femminile dobbiamo muoverci proprio con circospezione. Alcuni esempi? Il sale, sapidamente maschio in italiano, femminilizza invece nel bresciano: «Dàm ché la sal, che cónse i pomdór».

Se poi vi gusta, ecco la boccetta dell’aceto. Maschile in italiano, femminile in dialetto. Ce lo ricorda anche l’antica rima bassaiola: «Endóm a Canét endó gh’è l’asen che pisa la zét» (come se non bastasse, il Canneto della filastrocca è quello... sull’Oglio). E così è per il miele (brescianamente la mél).

Passaggi transgender dal maschile al femminile fra i due vocabolari li abbiamo anche in altre occorrenze, forse maggiormente leggibili come strafalcioni. È il caso del diabete (quante nonne abbiamo sentito lamentarsi: «El m’ha dìt isé ’l dutùr che g’hó la diabete tròp alta») o del canale di gronda («Stanòt i m’ha robàt dal tèt la canal de ràm»).

Troviamo però anche slittamenti di sesso in senso inverso. Come la verza, femminile singolare in italiano e addirittura maschile plurale in dialetto (i vérs). O come il fiume centrale della nostra provincia: oggi all’anagrafe ufficiale è il Mella, ma brescianamente era nata come la Mèla. Tradurre da una lingua all’altra è come la vita: richiede rispetto.

 

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