La «O» aperta o chiusa che ci divide in due

Il vecchio Dante distingueva i parlanti di una ampia fetta d’Europa romanza in base a come pronunciavano il loro assenso (l’«oil» francese, l’«oc» occitano, il «sì» italico). Non punto a tanto, ma mi piace pensare che i parlanti bresciani - peraltro caratterizzati da infinite, minuscole variazioni di termini e accenti - si possano dividere in due grandi famiglie a seconda di come dicono l’avverbio «ancora»: amò con la vocale finale aperta, oppure amó con la finale chiusa.
Anzitutto, da dove viene il termine bresciano? Scende dritto dritto dall’avverbio latino ad-modum e prevede anche la sua negazione gnamò (o gnamó) che significa «non ancora». Presenta un albero genealogico molto simile a quello dell’avverbio interrogativo comöt? che è pronipote del latino quomodo? A dire il vero, la tavolozza bresciana è - come sappiamo - variegata. Tanto che a molti di noi risulta più naturale, invece di comöt?, chiedere che fòza? (in che foggia? in che modo?). Mentre per dire «ancora» ci si rifugia spesso in un amò tùrna o più semplicemente in un tùrna (l’è dré tùrna a rumpìm le stórie... si dice di un frequente scocciatore).
Ma... torniamo al nostro avverbio di partenza. In base ad un primo, grossolano sondaggio a me pare che dantescamente i bresciani si dividano - come detto - in due famiglie fonetiche: chi dice amò (l’Ovest e buona parte della Bassa, la Valcamonica, la Valtrompia, la città) e chi dice amó (la Bassa centrale e orientale, il bacino gardesano, la Valsabbia). Voi di che accento siete? Di che parte della provincia siete? La vostra «o» finale è stretta o aperta?
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