La criminologa Bruzzone su Suad: «La verità è nel borsone»

Roberta Bruzzone, criminologa nota al pubblico del piccolo schermo ha pochi dubbi riguardo alla scomparsa
"LA VERITA' IN QUEL BORSONE"
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L’indagine è ancora aperta, ma per lei il caso è chiuso. Chiaro come le immagini che hanno aperto le porte di Canton Mombello ad Abdelmijd El Biti.

Roberta Bruzzone, criminologa nota al pubblico del piccolo schermo per l’assiduità con la quale siede nei salotti bianchi delle cronache nere, ma anche per aver operato in prima persona sul teatro della strage di Erba e dell’omicidio di Sarah Scazzi (giusto per citarne un paio) ha pochi dubbi. Interpellata per darci il suo parere sui gialli che hanno arroventato e arrovellato l’estate bresciana, tende ad escludere vi possa essere una firma diversa da quella dell’ex marito sulla sparizione di Suad Alloumi.

Il corpo della donna non si trova. L’uomo, dal carcere, da sempre si dice innocente. Per il giudice delle indagini preliminari mente. Per lei?
«Credo che la soluzione di questo caso, purtroppo, sia abbastanza chiara. E che sia nel borsone che El Biti sta trascinando a fatica quando è ripreso dalle telecamere di videosorveglianza installate nel cortile della casa dove l’ex moglie viveva con i suoi figli. Lo sforzo che compie per trascinarlo, nonostante sia un uomo dotato di una certa prestanza, credo sia particolarmente significativo. Il dato è uno di quelli valorizzati dal giudice nell’ordinanza di custodia cautelare. Il tentativo di El Biti di dire che quel bagaglio contenesse indumenti non lo mette al riparo dal sospetto che al suo interno vi fosse il corpo della donna. Del resto dove potrebbe essere se non lì? Abbiamo le immagini di Suad che entra in casa, ma non quelle che la riprendono uscire. Nell’appartamento non c’è più. In qualche modo deve essersene andata da lì. E quel borsone pare il veicolo più probabile».

Che possibilità ci sono, due mesi dopo, che il cadavere affiori da qualche parte?
«Non molte per la verità. Il tempo trascorso da allora non depone a favore dei ricercatori. Se fosse finita in un corso d’acqua, eventualità riscontrata in una certa casistica quando si tratta di delitti che riguardano le donne, le chance di dare una sepoltura a questa ragazza sono davvero poche. Si è trattato peraltro di un’estate particolarmente piovosa, il che complica particolarmente la situazione».

In casi come questi a cosa ci si deve affidare per trovare il corpo?
«Le telecamere di videosorveglianza e le celle telefoniche possono fornire un contributo decisivo. Si incrociano i risultati forniti dalle une e dalle altre e si cerca di restringere il campo. Come al solito però niente può sostituire le indagini tradizionali. Il fiuto dell’investigatore, l’intuizione vincente. I segnali qui si interrompono, la ricerca si annuncia pertanto decisamente più complicata. Non è facile circoscrivere una zona sulla quale concentrare le battute».

Il più delle volte le vittime sono rintracciate solo grazie al contributo di chi le ha fatte sparire. Quando le indagini possono scordarsi una mano di questo tipo?
«Quando si ha a che fare con un omicida con una personalità narcisistica maligna. Si tratta di individui che mai e poi mai ammetterebbero la loro responsabilità, da loro è pressoché impossibile ottenere un qualsiasi contributo».

Ai fini dell’accertamento della responsabilità è sempre necessario il rinvenimento del cadavere? Si può processare e condannare ugualmente un imputato?
«Certo che si può e si può pure arrivare a comminare il massimo della pena. Pensiamo al caso di Roberta Ragusa. Il corpo della donna non è mai stato trovato, eppure il marito è stato condannato a vent’anni per omicidio e distruzione di cadavere in primo grado e anche in appello. Se tutti gli altri indizi sono concordanti, come nel caso appunto dell’omicidio Ragusa, non c’è nulla che possa impedire ad un giudice di prendere una decisione e di condannare».

 

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