Il frutto tardivo dell'albero della parità

L’estate di San Martino asciuga le zolle e richiama alla memoria quel pezzo di storia raccontata da Olmi nel film «L’albero degli zoccoli»
L’11 novembre era la giornata del trasloco per i contadini
L’11 novembre era la giornata del trasloco per i contadini
AA

L’estate di San Martino asciuga le zolle e richiama alla memoria quel pezzo di storia raccontata da Ermanno Olmi nel film «L’albero degli zoccoli». L’11 novembre era la giornata del trasloco per i contadini ai quali i padroni non avevano rinnovato il patto colonico. Essi, dopo la semina, riunivano le loro masserizie e lasciavano i poderi alternandosi con altre povere famiglie che li avrebbero sostituiti nel lavoro mezzadrile senza salario. Lo «Sciur padrun dalle braghe bianche» esigeva le primizie e gran parte del raccolto, corvée obbligatorie e non pagava il lavoro quando servivano braccia aggiuntive. Ne nascevano guerre fra poveri, dichiarate dai braccianti, che vedevano nei mezzadri i loro affamatori. Umiliati come «mezzi ladri» si spostavano a piedi o su carri trainati da buoi. Incontrandosi si scambiavano sguardi imbruniti, pur sapendo che avrebbero dovuto fare la cresta sul raccolto per sopravvivere.

Anche le donne erano coinvolte nella consuetudine dal sapore feudale del lavoro gratuito, cuocevano il pane, lavavano i panni e attendevano alle faccende domestiche nelle ville padronali. Subivano spesso molestie dai poveri come dai ricchi, quasi la femminilità fosse un dazio aggiuntivo alla miseria e alla sudditanza economica. Fra le pieghe di questo periodo storico si rivela un fenomeno che ha attraversato i secoli come una tragica «usanza», dove i comportamenti predatori di alcuni uomini non sempre venivano condannati. Come la cappa di San Martino, il mese di novembre idealmente si tinge di rosso per rimarcare quanto la violenza di genere sia ancora esercitata.

Le molestie sottendono quel segmento di azioni prepotenti che incidono con ciclica cadenza la scorza della nostra società che si dichiara avanzata. È difficile affrontare questo argomento senza essere tacciate di femminismo, il cui suffisso richiama ingiustamente lo stesso concetto negativo di maschilismo. Come se entrambi i vocaboli fossero le parti opposte e contrapposte di un frutto bacato dal verme della sopraffazione di genere. Il femminismo è il frutto tardivo dell’albero della parità, germogliato dai semi del coraggio di tante donne che hanno voluto essere considerate come persone, degne di rispetto e uguaglianza. Esso incarna il genere femminile rivestito con un mezzo mantello condiviso per proteggere le sue nudità, accettato non più come elemosina ma appellandosi al diritto, nella convinzione già espressa da Montesquieu che la «giustizia ritardata è giustizia negata».

 

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia