Il carretto passava e quell'uomo gridava...

«Òsfèrrótcrìdecaàlpèldeconéccstràsefóóónne...» Il richiamo - di fatto una réclame - annunciava l’arrivo del venditore ambulante. La litania si chiudeva con l’appello all’amata clientela - le fónne - ma ad aprirla era l’elenco della mercanzia ricercata: ossa, rottami di ferri, crine di cavallo, pelli di coniglio, stracci... Tutto nel mondo contadino aveva una seconda chance, la pattumiera è invenzione successiva.
In cambio di questa «materia prima seconda» - come la chiamano oggi gli studiosi di riciclo ed economia green - l’ambulante offriva ciotole, posate, rocchetti di refe, qualche nìstola colorata. Gli strumenti dello strasaröl erano il carretto (l’antenato del delivery), la rapidità nel far di conto e la capacità affabulatoria. D’altro canto già il Canossi nella Melodìa faceva confessare alla sua boteghéra che il commercio richiede una generosità vigilata, perché «quant al bondà se pöl / bondà de gentilèza; / chèla la cósta gnènt».
Quando gli ambulanti - i mercandèi - si occupavano di un settore merceologico specifico erano palér, parolòcc, capelér, söpelér... Ma nella memoria del dialetto di Borno - vi hanno recentemente dedicato un bellissimo vocabolario Luca Ghitti e Giacomo Goldaniga - ho trovato quella che per me è una chicca di valore inestimabile.
Sull’altopiano l’ambulante era detto genericamente cromér. Un termine antico che risuona identico nel tedesco «Krämer» (il merciaio) e la cui radice «kram»- proprio come nel vocabolo scozzese «crame» - indica la tenda della bancarella, quindi lo stallo del commerciante. Il dialetto: mercanzia fina che non ha prezzo.
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