Gli studenti bresciani nella tragica estate di Srebrenica

L'eccidio di Srebrenica e la strage di Gornji Vakuf nel viaggio del «Treno per l’Europa»
  • Gli studenti bresciani a Srebrenica
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La guerra è entrata in casa di Kanita Focak una sera qualunque. Non è passata dalla porta, insieme al passo svelto di un soldato. Nemmeno è entrata dalla finestra, con l’eco dei cannoni nelle strade: è strisciata veloce con un buco di proiettile nel muro del soggiorno. Dall’altra parte del muro di una sera qualunque la guerra ha trovato un uomo, l’uomo è morto. Kanita racconta la «sua» guerra di Sarajevo, racconta gli uomini che si è portata via, racconta del marito colpito e ucciso, racconta la vita in mezzo all’assedio. Lo fa con gravità e leggerezza. E i 300 ragazzi partiti da Brescia con il progetto «Treno per l’Europa» ascoltano senza fiatare. 

Prima di lei è stato Jovan Divjak, militare serbo di origine ma bosniaco nel cuore (ha combattuto durante l’assedio e ne ha scritto un libro di memorie, «Sarajevo, mon amour»), a spiegare la guerra agli studenti bresciani, nella loro prima sera in Bosnia. Il soldato Divjak chiede ai ragazzi se hanno visto il film «Venuto al mondo», tratto dall’omonimo libro di Margaret Mazzantini. C’è anche lui in quel film, interpreta se stesso. Sì, i ragazzi l’hanno visto. «Sarajevo è stata difesa dagli uomini, ma è stata salvata dalle donne», dice. 

Alle storie di Bosnia, in anni tanto complicati, si sono intrecciate le storie degli italiani, e dei bresciani, che lì portavano aiuti: è il racconto di Agostino Zanotti, altra voce del conflitto protagonista del primo incontro organizzato per i 300 studenti in viaggio. Nelle sue parole l’eccidio del 29 maggio del 1993 ha preso vita sequenza dopo sequenza, accompagnando i ragazzi nei boschi di Gornji Vakuf e negli ultimi istanti di vita di Guido Puletti, Sergio Lana e Fabio Moreni. E ha consegnato nelle loro mani quel «perché?» ancora in cerca di una risposta definitiva. La speranza è che arrivi con la sentenza del processo a Paraga (accusato di avere ordinato la strage dei volontari e ora in carcere a Brescia) che inizierà il 15 dicembre. «Senza giustizia - ha ripetuto Zanotti - non può esserci pace».

Nella giornata di venerdì i ragazzi si sono invece immersi nell’estate di Srebrenica, al confine con la Serbia, nelle immagini della strage senza fine trasmesse a tutto schermo, e in mezzo alle lapidi bianche (altrettanto senza fine) del Memoriale che custodisce il ricordo degli oltre ottomila morti in otto giorni, e che, ancora, attende le spoglie dei molti che non sono più stati trovati. 

Qui i ragazzi hanno incontrato una delle «Madri di Srebrenica»: risparmiate dalla pulizia etnica in quanto donne, violentate in quanto donne, costrette a contare i mariti, i figli e i fratelli uccisi. Negli spazi un tempo occupati dai militari olandesi inviati dall’Onu a difesa della città (si seppe poi con quali risultati) rimangono poche tracce, un quotidiano del 1994, il calendario scritto sul muro e fermo all’inizio del 1995, i disegni osceni alle pareti di quello che doveva essere un bar.

E pure in mezzo alle impronte dei giorni di morte tra i ragazzi si sentono le parole con cui il «soldato» Divjak, arrivato alla vigilia degli ottant’anni, la sera prima li aveva salutati: «Oggi sono libero e indipendente, contento e innamorato».

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