Gli indiani in guerra e il codice segreto Gaì

Sul fronte le lettere dello zio pastore durante la Prima guerra mondiale funzionavano come i dispacci degli indiani Choctaw
Prima guerra mondiale (simbolica)
Prima guerra mondiale (simbolica)
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«En tèmp de guèra, piö bàle che tèra». In tempo di guerra le parole di verità faticano a trovar spazio, ieri come oggi. Un po’ perché «il nemico ti ascolta», un po’ perché magari ti ascolta il tuo stesso governo (e per legge al termine «guerra»preferisce «operazione militare speciale»).

Come fare allora per sfuggire ai controlli di spie e censori? Magari utilizzare lingue rare. Lo hanno fatto gli Stati Uniti, che già nella Prima guerra mondiale utilizzavano indiani Choctaw per riferire a voce messaggi segreti fra i reparti sul fronte. E lo hanno fatto anche i pastori delle valli bresciane e bergamasche.

La storia è quella di Giuseppe Facchetti (il «Re dei pastori» di cui scrivono Giacomo Goldaniga ed Emilio Gamba), che come molti colleghi dell’arco alpino sapeva naturalmente parlare in Gaì, la lingua-gergo inventata e custodita dai pastori proprio col duplice scopo di capirsi fra di loro e di non farsi capire dagli altri. Negli anni della Prima guerra mondiale Giuseppe scriveva spesso ai giovani nipoti impegnati sul fronte bellico, e per avere notizie veritiere superando il controllo della censura si rivolgeva a loro proprio in Gaì. «Ol to màdro gà bèrsa?» scriveva per chiedere «Hai fame?». Oppure «Ol tò masér l’è camösàt?!» per sapere «Sei in punizione?». E soprattutto per dare raccomandazioni di familiare e affezionata preoccupazione che mai avrebbero trovato spazio nella corrispondenza del Regio esercito: «Fìca ’l vél quan chi burìs», «Scappa, nasconditi quando c’è l’assalto».

Oggi gli indiani Choctaw vivono di memoria e il Gaì non lo parla più nessuno. La censura invece in giro per il mondo gode di ottima salute.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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