Francesca Alleruzzo, il dolore dei genitori

Alfredo e Graziella Alleruzzo: chiediamo giustizia, non vendetta. E davanti alla scuola di S. Polo spunta uno striscione dei bambini
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Il dolore senza la rabbia. La richiesta di giustizia senza la voglia di vendetta. E il ricordo struggente della figlia e della nipote - uccise da una violenza assurda - che sembra cercar conforto nella tenerezza per tre bambine che ora vanno abbracciate e cresciute. La voce di Alfredo Alleruzzo e di Graziella Alberti non si concede incrinazioni, né accelerazioni. Ad un tempo fragili e forti, ti guardano negli occhi e raccontano: «Erano la cosa più bella al mondo, ce le hanno portate via. Francesca stava tentando di uscire da un rapporto che le ha causato anni di fatiche, di dolori e di paure. Chiara aveva raggiunto la mamma da alcuni mesi e stava cercando un lavoro. Avevano il diritto di vivere». E poi provano a guardare avanti: «Adesso quelle tre bambine hanno bisogno di una famiglia, e noi per il loro bene siamo disposti a tutto».

Alfredo e Graziella Alleruzzo avevano vissuto a lungo a Brescia, nella zona di via Cremona, dove sono nati i loro quattro figli: Francesca e tre fratelli maschi. Poi il trasferimento a Reggio Calabria, dove Francesca si era diplomata (maturità classica e maturità magistrale) ed aveva conseguito la laurea in Pedagogia. Per gli Alleruzzo il rapporto con la nostra città non si era mai interrotto, specie dopo che Francesca e uno dei figli avevano scelto di vivere a Brescia.
Ieri mattina la terribile notizia e il primo volo utile dalla Calabria. Ricorda il padre: «Ci siamo sentiti l'ultima volta due sere fa, al telefono. Francesca ci raccontava che Mario non riusciva a gestire la separazione, che non sapeva affrontare l'idea che il loro rapporto fosse ormai finito. Lui aveva le chiavi di casa e continuava ad andare e venire quando voleva. Nostra figlia cercava di evitare gesti che potessero causarne scatti d'ira, figuratevi che non aveva ancora cambiato la serratura del portoncino d'ingresso». Dal racconto di Alfredo e Graziella riemergono le tessere di un rapporto familiare faticoso: «Con noi Mario non era mai riuscito a legare, anche se abbiamo provato a farlo sentire uno di famiglia. Mille volte nostra figlia ci aveva confidato dei suoi gesti d'ira, degli strattoni, delle camicie strappate per uno scatto di rabbia, delle scenate in pubblico, delle minacce. Per anni lei aveva sperato di riuscire a cambiarlo, a dargli tranquillità. Ma non ci è riuscita».

Da qui la decisione, sofferta ma convinta, della separazione. Ormai da molti mesi Mario viveva fuori casa, anche se spesso tornava nell'appartamento di via Raffaello.
E così, da qualche tempo Francesca sembrava aver riacquistato una nuova speranza. Ricorda la mamma: «Mi aveva raccontato di aver trovato persone che la stavano aiutando. Di un volontario impegnato nel sociale che l'aveva accompagnata ad un consultorio dove un avvocato le stava fornendo dei pareri legali sulla separazione. Sembrava che nella sua vita potesse tornare un filo di luce. Ma non è stato così».
Alfredo e Graziella guardano ai giorni difficili che ora li attendono. «Ora vogliamo stare vicini alle piccoline. Seguiremo gli sviluppi dell'inchiesta fino a che ci sarà possibile portare la nostra Francesca a Reggio per il funerale e la sepoltura. Lunedì poi dovrebbero arrivare a Brescia anche il papà di Chiara, con cui anche dopo la fine del matrimonio c'è sempre stato un legame di rispetto e di collaborazione, e i genitori del povero Domenico. Un bravissimo ragazzo». C'è anche la voglia di incontrare i familiari di Vito Macadino: «Sappiamo che stava aiutando nostra figlia. Così come lei ci raccontava di forti legami che la univano alle colleghe di scuola». Di quella primaria dove già ieri è comparso uno striscione degli alunni delle sue classi.

Alfredo e Graziella Alleruzzo raccontano della loro figlia e della loro nipote strappate alla vita da un odio folle. Lo fanno con un dolore che non tracima in rabbia, con una richiesta di giustizia che non lascia il passo alla voglia di vendetta. E con un orecchio a tre bambine che, nella stanza di là, aspettano di essere abbracciate per provare a chiudere con un sonno profondo una giornata che si era aperta col peggiore degli incubi.

Massimo Lanzini

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