Festa per i 90 anni di Braghini, cantore della brescianità

L’erba limunsìna cresciuta nell’aiuola del villaggio Marcolini regala un profumo delicatissimo, antico. In questa morbida coda d’estate Francesco Braghini ne strofina una foglia tra i polpastrelli e non trattiene un sorriso. «Ma sènt che profùmo..» dice quasi tra sé. Forse sta proprio qui - in questo gesto minimo e stupefatto, in questa capacità di trovare ogni giorno lo straordinario nel quotidiano - la chiave per incontrare Braghini, per cogliere il segno che ha lasciato sulla città: cantore instancabile di Brescia e della brescianità, scout e insegnante, cantautore e memoria storica, scrigno del dialèt dela Palàda e animatore di iniziative culturali, conoscitore della Bassa e camminatore di montagna...
Nato nel Quartiere Mazzucchelli, abitante prima della sognante Piazza del Foro e ora del tranquillo Villaggio Prealpino, il 25 settembre Francesco Braghini compirà 90 anni. Una serata a teatro ne festeggerà il traguardo.

«Ero il sesto di dodici figli - racconta - e sono cresciuto nelle palazzine della Congrega, anche se lì tutti le chiamavamo chissà perché càse Còndreghe con la "d". Pensa che la mia famiglia ci era entrata nel 1909 e un mio nipote ci è rimasto fino a un paio di anni fa. Ogni tanto passo e riguardo il cortile, la nostra finestra adesso è chiusa».
Tra guerra e scuola. Infanzia e adolescenza sono segnate dalla guerra. «A Sant’Eufemia il tram con il quale stavo andando a scuola fu mitragliato dagli aerei. Erano due carrozze, venne colpita quella davanti e io per fortuna ero salito dietro. Mi spaventai talmente che smisi di studiare». Decisione per fortuna poi ampiamente rivista... «Subito dopo la guerra entrai come apprendista alla Breda ma nel frattempo avevo voluto recuperare gli studi. Così ho fatto il concorso e sono entrato alla Stipel. Eravamo solo due maschi fra 150 telefoniste, lì ho conosciuto la mia Ernesta che ancora mi sopporta. Nel frattempo mi ero rimesso a studiare». Ecco allora il diploma magistrale con l’ingresso nella scuola elementare («Ricordo ancora i bambini delle mie classi a Berlingo») e poi la laurea con il passaggio alle medie («In città arrivai alla Mompiani, che aveva un distaccamento dai Saveriani»).
La musica. La passione per il canto il giovane Francesco la respira da subito, in famiglia. Ogni occasione è buona per misurarsi con le sette note: un pianoforte noleggiato, il flauto trovato alla pesca dei Cappuccini, la chitarra prestata da un amico, il trio con la fisarmonica per esibirsi all’osteria Canton d’Adamo al Carmine. «Ma la svolta arrivò grazie al mio amico d’infanzia Tullio Romano, che mi aiutò a capire come scrivere una canzone. Lui lo ha fatto firmando successi nazionali come "Angelita" e "Sei diventata nera"». I primi testi sono in italiano. Poi, nel 1960 quasi per caso mi venne tutta d’un fiato la mia prima canzone in dialetto». Nasce così quella "Bressa me bèla cità" che da allora è riconosciuta come un inno della città. «Tante altre città avevano una canzone dialettale nella quale identificarsi, noi no. Era un vuoto che aspettava di essere riempito».
L’approdo al dialetto diventa uno sbocco naturale. Da allora - e in particolare a partire dal 1970 - le canzoni sono diventare un’ottantina. E a queste si affianca la cura di testi e iniziative. Sono gli anni dei poeti Elena Alberti Nulli, Vittorio Soregaroli, Leonardo Urbinati. Sono gli anni delle ricerche di don Antonio Fappani, di Renzo Bresciani, dei testi teatrali di Egidio Bonomi. Proprio con Soregaroli e Alberti Nulli Francesco firma quel récital "Gesù" che nel ’93 approda al Teatro Grande.
«Avevo un taccuino su cui prendevo appunti quando nei mercati, nelle case di riposo o negli oratori sentivo un’espressione dialettale antica. Finalmente don Antonio mi convinse a pubblicare quanto avevo raccolto. Io sistemai tutti gli appunti durante auna vacanza al mare e la sera prima di partire stavo quasi per lasciare gli appunti in auto. Nella notte mi rubarono la macchina, ma per fortuna solo quella: i miei testi li avevo ancora con me». Ne è nata la raccolta di proverbi "Chèl póc che gh’è restàt". Che come tutto il lavoro di Braghini è uno sguardo delicato a ciò che Brescia e la brescianità sono state. Lo stesso sguardo da fresco novantenne che - rivolto alla foglia foglia di erba limunsìna tenuta fra le dita - oggi gli fa dire con un sorriso: «Ma sènt che profùmo...»
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