Fatica e molta pressione: cosa significa essere medico d'urgenza

La riflessione di Maria Lorenza Muiesan, direttrice della Scuola di specializzazione, che sottolinea: «Professione di grandi soffisfazioni»
La professoressa Maria Lorenza Muiesan - © www.giornaledibrescia.it
La professoressa Maria Lorenza Muiesan - © www.giornaledibrescia.it
AA

Maria Lorenza Muiesan è professoressa ordinaria di Medicina interna all’Università degli Studi di Brescia e direttrice della Scuola di specializzazione in Medicina d’urgenza. Il medico d’urgenza per conseguire la specialità deve seguire un percorso quinquennale di formazione che lo porta a poter operare in autonomia nel sistema integrato delle emergenze-urgenze. I lunghi mesi della pandemia hanno evidenziato la specificità dei pronto soccorso, poco attrattivi per i neolaureati e sempre meno per chi vi lavora. Tant’è che si parla di «fuga dai pronto soccorso» per semplificare un fenomeno sempre più diffuso, nell’ambito di una carenza di medici generalizzata.

Professoressa Muiesan, è vero che la specializzazione in Medicina d’Urgenza è poco attrattiva?

Intanto, vorrei sottolineare che si tratta di una professione bellissima, con grandi soddisfazioni ma, rispetto ad alcune altre specialità o attività mediche, sicuramente più impegnativa e faticosa. E vorrei anche sottolineare, dati alla mano, che tutti i medici che si sono specializzati nella nostra niversità sono già stati assunti, la maggior parte in Lombardia, alcuni a Trento e a Verona. Molti si sono spostati per ragioni familiari o per tornare nella città di residenza.

La pandemia ha messo tutti a dura prova ed i servizi in prima linea, quali quelli dei pronto soccorso, hanno dovuto sobbarcarsi un carico di lavoro difficile da descrivere. La mancanza di medici in quell’area è un fenomeno nazionale ma basta scorrere i dati delle immatricolazioni negli anni della Scuola di specializzazione dell’Università degli Studi di Brescia per avere conferma che è il Covid ad aver spinto i giovani colleghi verso altre scelte.

Nell’anno accademico 2010/11 due borse e nessun abbandono; poi 3 borse ed un trasferimento e, a seguire, nessun abbandono (tranne uno nel 2016) fino al 2018/2019, l’anno del Covid quando, su sei specializzandi, tre hanno lasciato. L’anno scorso su 12 borse solo due abbandoni e quest’anno, per ora, su 23 messe a disposizione ci sono 9 immatricolati, ma bisogna aspettare fine novembre per fare il punto, perché vi sarà l’ultimo scorrimento delle graduatorie e i medici possono scegliere di cambiare sede e scuola. Quindi, ne potremo perdere ma anche acquistare.

Su base nazionale 450 borse per la specialità di edicina d’rgenza sono andate deserte. È solo l’effetto del Covid?

Ripeto, l’esperienza del Covid ha sicuramente contribuito alle scelte i giovani si orientano verso professioni più retribuite e meno faticose. Mi spiego meglio: lavorare al pronto soccorso significa dover coprire molti turni notturni, con la maggior parte dei fine settimana occupati. È una professione fatta di fatica, molta pressione e grande responsabilità. Un sovraccarico di lavoro che spinge i giovani a fare un altro tipo di mestiere. Le situazioni sono spesso estenuanti perché, oltre all’aspetto specifico della professione e alla varietà dei problemi di salute da affrontare, vi è anche l’aspetto della sicurezza. Ricordo il fenomeno delle aggressioni, fisiche e verbali: c’è sempre stato ma, in questo particolare momento storico, si è acuito. Una vita continuamente sotto pressione.

Lei fa riferimento anche alle gravi responsabilità di chi lavora in un ronto soccorso cui non corrisponde un’adeguata «protezione»?

In alcune realtà gli specialisti in Medicina d’Urgenza vengono assunti da subito con contratti a tempo indeterminato ed è logico che preferiscano quella soluzione piuttosto che avere contratti a termine stipulati in seguito a bandi. Ora ci sono dai cinque ai dieci specialisti in attesa della pubblicazione del concorso all’Asst Spedali Civili, pronti a parteciparvi. Ci sono giovani assunti al quinto anno di specializzazione grazie alla legge Calabria, ma in molte realtà, proprio per la carenza di personale, vengono lasciati soli a sostituire chi non c’è.

Non è così che funziona: la legge deve essere rispettata e prevede che lo specializzando al quinto anno debba lavorare con la supervisione di un tutor, non allo sbaraglio. Anche perché se dovesse accadere qualcosa, la responsabilità ricade sul direttore della Scuola di specializzazione. Le direzioni degli ospedali pensano che i ragazzi siano pedine da prendere e spostare a loro piacimento. Non è così.

Molti non scelgono di studiare per un futuro al Pronto soccorso anche per ragioni economiche. Vero è che nella legge di bilancio è prevista un'indennità per questi medici ma ci sono ancora molti interrogativi.

Ribadisco: chi lavora al pronto soccorso è sottoposto a ritmi talmente intensi e faticosi che rimangono poche energie per dedicarsi alla libera professione. Che si potrebbe comunque fare, perché gli specialisti sono medici internisti a tutti gli effetti. Se il lavoro nei pronto soccorso è duro, non lo è da meno quello sulle ambulanze in cui spesso i medici si trovano ad affrontare situazioni di massima emergenza senza una struttura intorno. Nel pronto soccorso di un grande ospedale i carichi di lavoro notturni sono uguali a quelli che si affrontano durante la giornata e nei festivi si lavora molto di più. Sono elementi che pesano su una scelta che, alle attuali condizioni, rischia di diventare totalizzante.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato