Fame e paura nei ricordi di chi vide volare «Pippo»

Avviata nella sede del GdB la raccolta di documenti e cimeli per il progetto «Brescia sotto le bombe»
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Maria Luisa Gribaudi arriva per prima per partecipare al progetto «Brescia sotto le bombe», in mano una foto della casa di via Bonservizi, ora via Stoppani, dove una bomba devastò il rifugio nei sotterranei. Morirono decine di persone: «Se non avessimo cambiato casa - ricorda - sarei morta anch’io con la mia famiglia».

Giancarlo Marino porta il nome del fratello ucciso a sei anni, nel ’44, per lo spostamento d’aria provocato dalle bombe. Vivevano in via Aleardi, anche loro erano scappati in rifugio. «Mia madre non si riprese mai, di quel fatto si è sempre parlato poco, era una ferita aperta».

Per lui, nato nel ’46, il ricordo della guerra sono le macerie in piazza Sant’Alessandro, rimaste lì, dove oggi c’è il cinema Moretto, fino agli anni ’60: «Ci giocavamo da ragazzini». Sono le prime testimonianze raccolte ieri, nella sede del Giornale di Brescia, dagli storici Elena Pala e Roberto Chiarini per il progetto «Brescia sotto le bombe», che confluirà in una mostra il prossimo autunno in Palazzo Martinengo.

Fotografie d’epoca, testimonianze dirette, ricordi di famiglia, cimeli, che raccontano la vita quotidiana in quei mesi, tra il febbraio del ’44 e l’aprile del ’45, in cui anche la nostra provincia fu zona di guerra. «Di quel tempo mi ricordo la fame - racconta Gian Battista Corvi -. La nostra casa in via Tosio era inagibile, finimmo a Lodrino perché il sindaco era cugino di mio padre. Cercavamo le noci e le castagne nei boschi, tutti i giorni facevo un chilometro a piedi, avevo otto anni, per andare a prendere un pentolino di latte in una malga».

Per quei ragazzini di una volta, per i quali «Pippo» - il soprannome degli aerei alleati - era una presenza quotidiana, la guerra poteva essere anche un’avventura. «Mio padre era direttore della biblioteca Queriniana, dopo che la nostra casa in piazza Vittoria venne bombardata finimmo a vivere lì, tra i libri, in quattro in una stanza - spiega Giovanni Baroncelli, mentre su una foto indica col dito la sua cameretta sventrata, in un appartamento che si trovava sopra il Caffé Impero -. In caso di allarme in un attimo ci infilavamo sotto la galleria del Castello, fino alla terza lampada a destra, dove in mezzo al fango si riuniva la cultura bresciana residua: mio padre Ugo, il professor Panazza, Camillo Boselli... E noi piccoli lì ad ascoltare».

Tra i ricordi, «il mio primo morto, il custode della biblioteca che dopo il 25 aprile dalla finestra su via Cattaneo aveva tentato di neutralizzare, con il suo vecchio fucile della prima guerra, due fascisti che mitragliavano da sopra la galleria: lo ammazzarono loro, suo figlio lo trovò in un lago di sangue». Eredità. Per Luigi Capretti, all’epoca sfollato a Buffalora, le bombe su Brescia furono i bagliori dei bengala in lontananza e le foto, recuperate dall’eredità di famiglia, del prozio Giuseppe Manziana (suo figlio Carlo, sacerdote deportato a Dachau, sarà vescovo di Crema) in sopralluogo nella sede della Banca San Paolo semidistrutta il 2 marzo del ’45. «Un episodio di cui in famiglia non avevo mai sentito parlare», forse per una sorta di pudore.

E in Banca San Paolo lavorava Giuseppe Roggiero, che quando suonava l’allarme scendeva nel caveau. Fu lui a portare a casa quei frammenti di bomba «che in casa divennero fermaporte - ricorda il nipote Maurizio -. Se raccontava di quegli anni? Poco, per lui la guerra era solo quella del ’15-18, che aveva combattuto sul Cevedale...».

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