«Dagli stili di vita dei Masai la lezione per prenderci cura del nostro pianeta»

Il battito, il respiro. Se lo sguardo si apre fino alla cima del Monte Kenya e i piedi calpestano la terra della Rift Valley, laddove l’uomo mosse i suoi primi passi, beh, si fa presto ad andare oltre i parametri medico-scientifici. Certo si contano le pulsazioni e il consumo di ossigeno, ma quel battito e quel respiro laggiù hanno un che di ancestrale, di profondo, di vitale. Lo sa bene Gianluca Di Rosario, dottorando di ricerca del Dicacim (Dipartimento di Ingegneria civile, ambientale, della cooperazione internazionale e di matematica) dell’Università degli Studi di Brescia: in quei luoghi sta conducendo uno studio scientifico e antropologico sulla comunità Masai e l’esperienza in corso sta assumendo un valore che va al di là di quello puramente accademico.
Il progetto
L’antefatto di questa storia risale in realtà a sette anni fa, quando Gianluca, allora 25enne, giovane laureato in Scienze motorie andò in Kenya insieme al dottor Gabriele Rosa in veste di preparatore atletico. «Da lì - racconta - nacque un bisogno di conoscenza, di incontro con realtà diverse dalla nostra, da cui possono nascere scenari nuovi». Come quello in cui si muove ora, nell’ambito di un progetto accademico internazionale che coinvolge, oltre a Unibs (in particolare con i docenti Nicola Francesco Lopomo, Massimiliano Gobbo e Alberto Matteelli), la prestigiosa Icahn School of Medicine at Mount Sinai di New York (dove Di Rosario ha studiato tra il 2017 e il 2018) e la Moi University di Eldoret, in Kenya. Un progetto che è anche di cooperazione internazionale e gode dell’appoggio del Rotary Club Mille Miglia, dell’associazione di promozione sociale Noha onlus, della chiesa degli Apostles of Christ Shrine di Nairobi, conosciuta attraverso i Comboniani di Brescia.

I test
«L’idea - spiega Di Rosario - è nata da un dialogo tra me e Mathew Komen, medico di origine keniana conosciuto alla Mount Sinai di New York. Si tratta di un’indagine osservazionale sugli stili di vita della popolazione Masai, dal movimento all’alimentazione, all’aspetto sociale. Stili di vita che hanno anche un valore in termini di sostenibilità, dal momento che i Masai sono fondamentalmente allevatori che si prendono cura dell’ambiente naturale in cui vivono». Si è cominciato concretamente negli scorsi mesi di giugno e luglio, con il monitoraggio continuo di due gruppi di persone, venti giovani Masai (chiamati Morans) del villaggio di Kimanjo e venti abitanti dell’area urbana di Nanyuki. «Abbiamo effettuato test con tecnologie indossabili misurando gli indicatori di salute e benessere individuale, dai parametri vitali alla massima potenza aerobica. Abbiamo anche diffuso tra di loro un questionario sulla qualità di vita, sul livello di percezione e soddisfazione che ne hanno».

Prospettive
Si va avanti, per un progetto dalle grandi potenzialità: «Abbiamo molto da portare e molto da imparare. C’è anche l’idea di realizzare infrastrutture in un villaggio, come un pozzo ed una biblioteca, che contribuiscano alla promozione di stili di vita positivi. Ma già abbiamo potuto vedere ed imparare come nel loro modo di vivere ci siano comportamenti virtuosi legati ad esempio ad un minor spreco di risorse, alla capacità di non sfruttare all’eccesso animali e piante. Credo che in questo senso i Masai hanno qualcosa da insegnarci, non per un ritorno al passato, ma per guardare al futuro consapevoli del destino che lega tutti gli esseri viventi sulla Terra. Ce lo ripete spesso anche Papa Francesco, la direzione da prendere è la cura della casa comune. Lo stesso battito, lo stesso respiro».
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