Crucifixus appare a Canton Mombello

Ieri pomeriggio la scena teatrale di «Campo santo» recitato davanti a un centinaio di reclusi. La sintonia tra l'attore Pini Carenzi e il pubblico del carcere
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L'attore Davide Pini Carenzi viene richiamato in scena più volte, le persone di Canton Mombello lo applaudono e dopo un'oretta di recitazione gli sono diventate amiche. Eppure, all'inizio di questo Crucifixus, entrato ieri pomeriggio a Canton Mombello con un'opera teatrale, «Campo santo», tratto dall'opera autobiografica di Gustaw Herling, «Un mondo a parte, tra pubblico e palco c'è una ricerca di sintonia: noi, sembrano dire, rumoreggiando lievemente, le persone del carcere, non meritiamo di essere presi come martiri da lager, come li stai interpretando magnificamente tu, caro Davide Pini Carenzi, però anche noi siamo chiusi e ci stringiamo in cinquecento nel posto in cui dovremmo essere in duecento, perciò esigiamo uno sconto sulla distanza civile, un'apertura al chiuso opaco in cui ci troviamo, un riavvicinamento tra lager e prigione.

La mediazione arriva, poiché viene cercata con abilità morale e teatrale e si manifesta in un applauso per una nuova empatia tra Davide e le persone del carcere: succede quando l'attore illustra il lager russo della guerra e dice che «si sta stretti»; parte un applauso e si alza un ulteriore silenzio di rispetto.

Il carcere che ascolta è separato dal carcere visitato dalle autorità soltanto da una fila vuota, il resto è il fiato di un centinaio di persone di Canton Mombello che respirano come Romano e Bino, come Taurisano e Arcai, come Agnelli e Ambrosi, come Bordonali a Aristide Peli. Come l'avvocato Magoni, penalista, il quale ci dice di un luogo in cui la pena non è redentiva e soltanto umiliante, siccome anche in una cella si fanno i turni per prendere posto e riposare. Che non c'entra col carcere e umilia tutti noi della civilissima Brescia e ci sporca di una macchia da eliminare alla svelta.

Tutto incomincia da Crucifixus, da queste pagine di carne sotto Pasqua, da questa serie di eventi teatrali creati da Carla Bino e Claudio Bernardi. Osservo di profilo Andrea Arcai, il quale viene a ricordarci certe ore maligne in cui dovette vivere un suo martirio proprio qui. E a lui viene in mente, forse nelle spire di una matura voglia di riconciliazione piena, manifestata da tante parti in questi giorni, che si deve andare avanti su questa via, si deve avere coraggio. Come coraggiosa, spiega alla fine dello spettacolo teatrale, è la chiusura quasi materna della direttrice del carcere, Francesca Gioieni che conferma la verità di quello strettissimo e unanime, «se tu scendi io salgo», che pare l'allegoria sconfitta del Venerdi Santo in quel salire insieme, Cristo e il ladrone, nell'anima del Padre.

Herling fu nel lager sovietico, per la ragione che, spiega l'attore, si scambiò il suo nome polacco in un nome tedesco, tradendo il suo desiderio di combattere il nazismo.
A Davide Pini Carenzi serve un cappello da guardiano, un sacco, un velo, una croce di legno e una rosa per prendere la scena di tante parti, per scandire il fondo esistenziale in cui si può stare morti da vivi, per denunciare l'impossibilità e l'inutilità di ribellarsi.
Ma il cappello del guardiano va a morire appeso a un filo e a pendolo sotto il faro di scena, il sacco non pare pesante davanti alla lievità della neve, la croce di legno prende l'uso di ogni avventura umana, l'uso perfino, di uno strumento di offesa contro la prepotenza e, alla fine, un mezzo di sostegno alla nuova compagnia umana che uscirà dalla guerra.

Rimane la rosa e rimane il velo. Velo e rosa risarciranno di pietà il sepolcro sulla terra nuda della prigionia e porteranno l'attore principale a immolarsi, come il prigioniero di ogni tempo, in ogni guerra e in ogni pace, distendendosi all'indietro come il corpo che si flette di una persona colpita a morte dalla fame, a cui è stato rifiutato anche la più piccola frazione di pane bianco. Quel pane di Emmaus riconosciuto dai discepoli proprio per la maniera di frazionarlo, di esaltarne la vitalità. Quel pane bianco che non muore sotto la neve pensata di Pasqua.

Tonino Zana

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