«Comunicare la morte, uno strazio anche per noi dottori»

Parla un rianimatore: «Tutti i giorni una terribile conta di morte, e con altri malati in coda non c’è tempo di ragionare»
Coronavirus, personale sanitario nei corridoi del Civile - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
Coronavirus, personale sanitario nei corridoi del Civile - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
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«Non ce la faccio più. Sono diventata un’automa. Tutti i giorni la stessa tragedia. L’emergenza si è trasformata in routine. Ma il peso sul petto che mi accompagna dai primi giorni di pandemia non accenna a mollare la presa». È angoscia col silenziatore quella con la quale Maria (il nome è di fantasia, perché il medico non è in cerca di visibilità), anestesista rianimatore da anni in reparto a Brescia, è costretta a vivere da un mese, 24 ore su 24, sette giorni su sette. Insieme ai colleghi è in mezzo ad un tunnel lungo e buio.

Lo stanno affrontando con coraggio e dedizione assoluta, ma senza il supporto della scienza: senza sapere dove andare e come arrivarci. «Solo ora si intravede un bagliore sul fondo. Per quasi un mese però - ci spiega la dottoressa - abbiamo gestito il doppio dei pazienti che solitamente gestiamo in un turno normale per quasi un mese, in condizioni davvero al limite. Non sappiamo se siamo positivi al virus, non ce lo possiamo permettere. Abbiamo lavorato con dispositivi di protezione che, con il passare delle settimane, sono diminuiti e peggiorati. È pressoché impossibile non essere stati contagiati. Io fortunatamente non ho sintomi, ma tolgo mascherina e guanti solo per dormire e ho pezzette imbevute di candeggina sempre con me. Il problema però non è certo questo».

A fare male è altro. È un bilancio impreventivabile, di quelli che mettono in discussione tutto, passato, presente e futuro. «Tutti i giorni è una terribile conta di morte. Il paziente arriva in condizioni precarie, magari migliora, ma poi si aggrava di colpo e non c’è più niente da fare. Non c’è tempo di ragionare. Ci sono altri ammalati in coda, che attendono il posto in rianimazione: così non puoi fare altro che infilare il corpo in un sacco nero, mandarlo all’obitorio e poi chissà dove. Morire da soli. Credo non ci sia cosa più brutta». Un dramma nel dramma, anche per i medici.

«Non riuscire a salvare i pazienti è solo un aspetto di questa terribile vicenda - ci dice il medico - l’altro è che ci siamo trovati nell’impossibilità di riservare lo stesso trattamento a tutti. È umanamente ingiusto, ma non ci sono alternative. Lo facciamo condividendo le decisioni in équipe, ma questo non allevia il dolore. La situazione è straziante per noi medici con esperienza, non oso immaginare cosa possano provare gli specializzandi, gli infermieri. È davvero una tragedia; chi, fortuna sua, vive lontano da un ospedale la può solo immaginare».

La cronaca del dramma inizia puntuale di buon’ora, ogni mattina. Il primo appuntamento è al telefono con i parenti. «Comunicare che il marito, il papà, la sorella non hanno superato la notte - prosegue la dottoressa - è un dolore al quale non ci si abitua. Farlo tutti i giorni, e per di più al telefono, è uno strazio. Noi medici siamo l’unico collegamento possibile tra i pazienti Covid e i loro cari, che a noi affidano le loro premure. Ci chiedono di coccolarli, di fare loro le carezze, di consolarli. Bardati come astronauti possiamo fare poco. Abbiamo liberi solo gli occhi, per vedere lacrime, disperazione e morte di continuo. Ci hanno detto che ci sarebbe stata assistenza psicologica per noi. Quando? E poi: chi ha tempo per andare dallo psicologo in questo momento?».

Insieme alla speranza anche la rabbia corre sul filo del telefono. «Purtroppo in momenti come questi è inevitabile che i parenti si sfoghino con noi. C’è chi dice di aver sentito di un farmaco miracoloso in tv e pretende che sia usato anche con il suo caro; chi minaccia di denunciarci e di presentarsi in ospedale con l’avvocato. La rabbia è comprensibile. Purtroppo c’è chi, magari con lo scopo di specularne, mette in circolazione - commenta amareggiato il medico - notizie false e false aspettative. Ho letto da più parti, e specie nei social, un sacco di informazioni false. Probabilmente la maggior parte. La ricerca scientifica ci mette mesi, se non anni per mettere a punto farmaci e rimedi. Questa è l’unica verità. Tutto il resto sono ipotesi, che il più delle volte si rivelano infondate, che creano comunque false speranze e rendono il nostro lavoro ancor più frustrante».

Difficile non farsi sopraffare dal senso di impotenza. «Ho deciso di fare il medico, il medico anestetista rianimatore, nella convinzione che un giorno avrei avuto gli strumenti per salvare delle vite. Questa epidemia mi ha fatto capire che non sarà mai così. Qualche collega forse crederà ancora di essere onnipotente, ma in realtà siamo solo un supporto. Chi deve morire, muore. Chi deve vivere, vive». Una lezione durissima. «Spero che si trasformi in un insegnamento. Spero di non aver vissuto un mese e mezzo della mia vita in queste condizioni per nulla. Più che applausi dai balconi, spero che quest’emergenza porti altro e che si traduca in un profondo cambiamento della società. Temo però che alla fine sarà stata una lezione per pochi e che, per i pochi che l’avranno capita, il prezzo sarà altissimo: la solitudine».

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