Chiusi, ma reperibili «porta a porta»: lavoro nero al 47%

Sono forse i commercianti che più di tutti hanno dovuto investire. Quelli che hanno speso - e non poco - per adeguarsi in fretta e furia alle rigorose e necessarie regole di sicurezza e di igiene pur di continuare a lavorare. Ma quella del lavoro che garantisce il minimo indispensabile per tirare avanti mese dopo mese - da un anno a questa parte -, purtroppo, è spesso rimasta una speranza più che una realtà, visto che i continui lockdown a intermittenza hanno innescato un moto perpetuo di saracinesche che si alzano e si riabbassano in un batter d’occhio, seguendo l’onda arrogante dei contagi.
Sono parrucchieri, barbieri, estetiste, pasticcieri, falegnami, giardinieri. In una parola: i piccoli artigiani. Una categoria che adesso, nel pieno della crisi più nera dettata dall’emergenza sanitaria, si trovano a doversela vedere con un altro ostacolo: quello dell’abusivismo.
La geografia. Certo, il fenomeno non è nato con il Covid, ma serpeggia da anni in sottofondo e i dati elaborati dal Centro studi di documentazione e ricerca coordinato da Enrico Mattinzoli e che fa capo all’Associazione artigiani di Brescia (presieduta da Bortolo Agliardi e diretta da Paolo Carrera), lo testimoniano. Lo spaccato bresciano era rimasto così: si attestava al 39,58%, in calo rispetto all’indagine condotta nel 2012, quando il lavoro nero aveva raggiunto il picco massimo del 44,72% nel Bresciano. Percentuali non banali, anzi, ma con un trend positivo rispetto al quadro d’insieme, perché - appunto - in calo. Fino al 2020 nero del Covid. Contarlo esattamente, questo lavoro sommerso che in modo carbonaro si svolge attraverso il «porta a porta» più classico, è difficile. Si parla di stime, nove volte su dieci al ribasso. Ma la stima attuale, incrociando i dati Istat e della Cgia parla di un effetto Covid che ha fatto ripiombare l’abusivismo ai massimi storici, toccando complessivamente quota 47%.
La piazza più fruttuosa (anche per densità demografica) è quella di Brescia e hinterland dove si arriva al 27%, seguono Bassa occidentale (16%) e orientale (11,2%), Lago di Garda (18 stimato), Valtrompia (10,5), Valcamonica (10) e Valsabbia (7,3). Il fenomeno. Spiega Paolo Carrera: «In questa situazione di incertezza e con ristori scarsi, l’abusivismo è impennato. Molti lavoratori si sono di fatto recati nelle case private e le categorie più penalizzate sono i giardinieri, parrucchiere ed estetiste. Tante attività sono in difficoltà anche perché durante il lockdown la concorrenza che è andata a prestare il servizio nelle case ha di fatto tolto loro i clienti. Al momento della riapertura molti utenti non sono tornati, perché chiaramente i prezzi erano concorrenziali, così come la comodità di avere il professionista a casa: c’è chi ha perso fino al 40% della clientela».
Una concorrenza interna dettata dalla disperazione e dalla preoccupazione di come arrivare alla fine del mese. «La norma italiana - confessa Carrera - non aiuta alla denuncia dell’abusivismo». Questo perché nel momento in cui viene predisposto il controllo, se il professionista non viene colto in flagranza tutto cade nel vuoto. E soprattutto in questo momento, dove i controlli sono convogliati sulle strade per garantire il rispetto dello stop agli spostamenti, verificare e cogliere sul fatto è arduo.L’allarmeCon negozi e artigiani chiusi, proliferano gli abusivi
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