«C’è ancora domani», sguardi di sorellanza che restano addosso

Dopo quasi ottant’anni il film «C’è ancora domani» insegna a pensare alla Storia e colora le fotografie in bianco e nero delle nostre mamme
Paola Cartellesi sul set del film, di cui è anche regista
Paola Cartellesi sul set del film, di cui è anche regista
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Dopo quasi ottant’anni il film «C’è ancora domani» insegna a pensare alla Storia e colora le fotografie in bianco e nero delle nostre mamme, quelle con il rossetto e l’abito della festa. Paola Cortellesi rispolvera gli anni Quaranta e mostra le verità scomode dei panni sporchi che si lavano in famiglia. La sottomissione delle italiane alla fine della seconda Guerra mondiale è più brutta della povertà che si annida nei casermoni grigi e senza balconi della periferia romana. Affligge più del senso di miseria diffuso, è più umiliante del grembiule che Delia indossa per coprire il rammendo della sua camicetta pulita. A questo si aggiungono le sberle da calibrare come consiglia «Sor Ottorino» il quale, compie gesti laidi sulla nuora mentre lo accudisce e al figlio Ivano, uomo inetto, spiega come trattare la moglie: «Non glie puoi menà sempre, sennò s’abitua! Una, ma forte!».

Ne esce uno spaccato sull’infelice condizione comune a tante mogli rassegnate a una vita scandita da violenza domestica, subita come inevitabile conseguenza della sottomissione matrimoniale. Gli uomini educati dalla violenza assistita esercitata dai loro padri si aspettavano una moglie zitta e «solo mia».

In Delia si riflettono le storie vere delle donne del popolino assoggettate a un maschilismo che non risparmiava neppure «le signore» che godevano di condizioni economiche migliori. In lei, nonostante il degrado umano che la circonda permangono piccole finezze e, mentre apparecchia con piatti e bicchieri usati solo in rare occasioni, sogna il riscatto almeno per sua figlia. Come tante è abituata a lavorare fin da piccola, sottopagata e costretta a fare la cresta sul salario perché i suoi bisogni, come a tavola, sono serviti sempre per ultimi.

Chissà quante volte le nostre nonne avranno immaginato di andarsene dalle loro case piene di bambini e di magra considerazione. Come Delia avranno pensato «e n’do vado?» Hanno imparato a cantare «a bocca chiusa» e come nel film mamme e figlie si sono scambiate sguardi di sorellanza, convinte che ci potesse essere un futuro migliore.

Il finale è potente, inaspettato e liberatorio. Quando esci dalla sala cinematografica l’emozione dell’applauso spontaneo ti rimane addosso come un odore, come l’inchiostro di una vecchia stilografica sulle mani. Con il groppo in gola ripensi alla bellezza infinita dell’amicizia, unica nota luminosa in tanto grigiore, perché di una amica come Marisa ne abbiamo bisogno tutte.

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