Casonsèi, marübì, calsù: una bàsia dall'Oriente

Attorno all’origine di ricette bresciane (almeno da secoli), tra etimologia e condimenti
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Sulle tovaglie bianche delle nostre nonne campeggiava spesso, il dì di festa, una bella bàsia (il Devoto ci ricorda che nel gallo romanzo il baccinum era un vaso di legno, una bacinella) fumante e ricolma di casonsèi. Re casoncello, che noi bresciani sentiamo tutto nostro. Ma perché si chiama così? Due le piste credibili.

Una porta fino a caseum, la parola latina per cacio, formaggio. E quindi allo spagnolo queso (in Messico si gustano ottime quesadillas, saccottini di sfoglia ripieni di carne o formaggio). Una seconda traccia invece legge i casonsèi come calzoncelli, piccoli calzoni (in Vallecamonica un tipo di ravioli è chiamato proprio calsù e la stessa radice ha il calzone farcito delle pizzerie).

E la ricetta dove nasce? Un ricercatore come Michele Scolari ricorda manoscritti cremonesi del Duecento che traducono trattati di medicina e dietologia di sapienti islamici del tempo: vi è esaltato il sambususch (triangolo di sfoglia ripieno di carne speziata, uova ed erbe) chiamato qui rafioli o calizon panis.

Insomma, gli archivi ci raccontano che i nostri casonsèi (come i marübì cremonesi e i tortèi mantovani) sarebbero nati nientemeno che in Oriente. E che la ricetta sarebbe immigrata in Padania grazie a traduttori cremonesi forse finanziati da Venezia (interessata a trovare nuovi mercati per le sue spezie esotiche). Figuriamoci! Sarebbe come pensare che oggi una multinazionale - mettiamo si chiami McDonald’s - faccia pubblicità per influenzare i nostri gusti alimentari. E che magari tra secoli e secoli i nostri propronipoti considereranno hamburgher e patatine come un tipico piatto nostrano. Mah. Nel dubbio, io sto coi casonsèi.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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