C'è correlazione tra Pm10 e coronavirus? Uno studio dice di sì

Lo ipotizza la Società italiana di medicina ambientale Trecroci: «Ma è una ricerca ancora molto preliminare»
PM10 E COVID: PARLA L'ESPERTO
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La tesi è diretta: le polveri sottili sarebbero vere e proprie autostrade per la diffusione dell’epidemia di coronavirus, rappresentando una specie di vettore che avrebbe consentito al virus di viaggiare più rapidamente in Pianura padana.

A mettere la pulce nell’orecchio sui social, al principio di queste settimane disgraziate e «macchiate» dal coronavirus, sono stati i rappresentanti del movimento Fridays For Future. Che, in cinque punti e poco più di tre minuti di video, hanno cercato di lanciare un messaggio diretto: cambiamenti climatici e inquinamento sono strettamente legati all’esplosione di epidemie, perché «virus e batteri possono rimanere dormienti per centinaia e migliaia di anni, per poi risvegliarsi». Alla loro è seguita la voce di Claudia Balotta - l’infettivologa a capo del team che ha isolato il ceppo italiano del Covid-19 - che, l’8 marzo, a specifica domanda aveva chiarito: «Certamente il numero elevato di violazioni che noi commettiamo verso l’ambiente, con l’inquinamento e l’innalzamento delle temperature, è facile che abbia una relazione con queste situazioni. Anche se al momento non ci sono ancora indizi specifici per questo Coronavirus».

Fino ad ora, quando a indagare questo preciso filone di ricerca è stata la Società italiana di medicina ambientale (altrimenti detta Sima), la quale - anche se sulla base di dati statistici ancora ridotti, tanto da presentare l’epilogo dell’indagine come «ipotesi» - è arrivata a formulare una primissima tesi: secondo il team di studiosi il particolato atmosferico accelererebbe la diffusione dell’infezione che sta flagellando la Lombardia e il Paese. Una tesi che - al momento - resta «preliminare» e sulla quale ci sono ancora parecchie zona d’ombra da illuminare, ma che rappresenta un primo passo verso l’approfondimento di cause ed effetti di due questioni che sono ormai in modo inequivocabile facce della stessa medaglia: la salute e l’ambiente.

La Sima ha condotto lo studio insieme alle Università di Bari e di Bologna, esaminando i dati delle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente (Arpa). Quindi, li hanno incrociati con l’andamento dei casi di coronavirus in Italia, numeri riportati sul sito della Protezione civile. Ad emergere è stata una relazione tra gli sforamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di Pm10 registrati tra il 10 e il 29 febbraio e il numero di casi di Covid-19 aggiornati al 3 marzo (tenendo così in considerazione anche i tempi di incubazione). In buona sostanza, «le polveri stanno veicolando il virus» - avverte Gianluigi De Gennaro, dell’Università di Bari - perché fanno da carrier, vale a dire da vettore di trasporto e diffusione per molti contaminanti chimici e biologici, virus inclusi.

«Più ce ne sono, più si creano autostrade per i contagi. Bisogna ridurre al minimo le emissioni e sperare in una meteorologia favorevole» spiega De Gennaro. «L’effetto è più evidente nelle province dove ci sono stati i primi focolai» evidenzia Leonardo Setti dell’Università di Bologna, mentre il presidente della Sima precisa: «L’impatto dell’uomo sull’ambiente sta producendo ricadute sanitarie a tutti i livelli. Questa dura prova che stiamo affrontando a livello globale deve essere di monito per una futura rinascita in chiave realmente sostenibile. In attesa del consolidarsi di evidenze a favore dell’ipotesi presentata - conclude Alessandro Miani - in ogni caso la concentrazione di polveri sottili potrebbe essere considerata un possibile indicatore indiretto della virulenza dell’epidemia».

Non è un caso se si parla, tuttavia, ancora di uno scenario ipotetico. Due gli scenari da tenere presenti che sono, in parte, in antitesi con questa correlazione: la correlazione tra alto livello di Pm10 e diffusione preliminare del virus, nel periodo preso come riferimento, non rispecchia - ad esempio - la situazione bresciana. Dove, tra il 10 e il 29 febbraio, le misurazioni restituite dalle centraline Arpa non sono state pessime rispetto ad altri periodi (sei in tutto i giorni più critici). Al contrario in Piemonte, e in particolare a Torino dove i livelli di smog hanno conosciuto vette significative e molto più elevate rispetto a Brescia, la diffusione del Coronavirus è stata assai più lieve rispetto al triste quadro registrato nella nostra provincia.

Un quadro, questo, che fa rimanere cauto rispetto a questo primo atto dello studio anche il professor Carmine Trecroci dell’Università di Brescia, da sempre voce di primo piano sulla scena ambientale di casa nostra. «Certamente in questa ricerca una parte di evidenza c’è, ma attenzione: si tratta di un’evidenza ancora molto preliminare, perché si basa su dati che analizzano un periodo troppo breve e che vanno quindi posti a verifica critica - rimarca -. La metodologia è poi relativamente semplice: servirebbero elementi statistici più articolati. Per questo aspetterei prima di giungere a conclusioni universali, perché sono necessarie banche dati più ampie».

 

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