C’è chi ancora ricorda le carrozze a Brescia: Franco, una vita all’autorimessa del Carmine

Brescia è sempre più lanciata verso un futuro da smart city, ma tra i vicoli della città possiamo ancora trovare storie, racconti e ricordi lontani della Leonessa del tempo che fu.
A pochi passi da corso Garibaldi, in vicolo del Moro, si trova un’autorimessa. Se entriamo e guardiamo alla nostra destra notiamo un piccolo gabbiotto. È mattina, perciò con molta probabilità ci sarà un signore anziano seduto su una sedia: lo sguardo è assorto, forse starà ricordando qualcosa, ma coglie ogni dettaglio. Il suo nome è Franco. Ha sempre vissuto al Carmine. Non appena si accorgerà della nostra presenza, aprirà la piccola porta del gabbiotto. Ci scruterà con occhi curiosi, aspettandosi una nostra richiesta. All'inizio non sarà molto contento del fatto che le nostre domande non riguardano il parcheggio di auto, ma dopo un po’ comincerà a parlarci di una Brescia che non esiste più.

«Ho quasi novant’anni, e sono ancora qua. Ho cominciato nel 1954, quando avevo diciotto anni. Ho solo lavorato nella vita. Ora non voglio stare a casa, altrimenti è finita». Una breve pausa. «Se vi può interessare, la mia vita l’è chèsta». Eppure, un tempo, la vita al Carmine era difficile. «Eravamo più poveri, andavano a prendere l’olio misurandolo con il bilancino e si stava attenti a non sprecare neanche un pezzo di pane. Adesso c’è troppo spreco. Sono venuto dalla guerra, e vedere tutte queste persone che si siedono al bar a bere il pirlo senza fare nulla tutto il giorno è brutto, non lo accetterò mai. Ho avuto amici che mi dicevano che la vita è durante la notte, ma non mi sono mai fatto convincere».
Una storia lunga cinquant’anni
Lo sguardo sul Carmine è quello di un ragazzo di paese arrivato in città dalla Franciacorta. Classe 1933, Franco infatti è originario di Ospitaletto. All'autorimessa è arrivato grazie ad un parroco: «I miei fratelli erano in collegio alla Pavoniana. Là il parroco mi aveva consigliato di venire qui perché il proprietario Riccardi cercava dei ragazzi per aiutare all’autorimessa. Ci tenevo a trovare un lavoro. Da allora sono stato sempre qui: per me che vengo da un mondo contadino, era addirittura una cosa grossa».

Ora Franco gestisce principalmente il piano terra dell’autorimessa. «Parcheggiano a ore, a volte ci sono anche clienti mensili. Se sto a casa, accorcio la mia vita». Alla sua età Franco ha ancora bisogno di sentirsi impegnato: «Ieri era domenica: il mattino mi è passato anche velocemente, ma il pomeriggio è stato una noia insopportabile. Qui ho uno scopo: scambio due chiacchere, scherzo, faccio un giro in bici». Tra il Carmine di ieri e oggi c’è un abisso. «Spero che non amplino la Ztl, perché non so come faranno ad entrare in autorimessa. Bisognerebbe rendere più vivo il centro ed evitare che vada perduto».
La guerra e la fame
Tanto più che qui, tra i vicoli tortuosi e secolari, neppure due conflitti mondiali hanno cancellato l’eredità della storia umana di chi ci ha vissuto. La Seconda guerra mondiale Franco la ricorda bene per averla vista da bambino, ma non ne conserva immagini così terribili come potrebbe avere chi ha vissuto i bombardamenti che devastarono la Leonessa e il «suo» stesso Carmine. Certo, era uno spettro per i più, ma la forza che si ha in gioventù vince su tutto. «Abitavo a Ospitaletto – ricorda Franco -, a 150 metri dalla stazione. Avevo circa dieci anni». Certe immagini restano impresse nella memoria: «Vedevo i soldati che nei pressi della stazione caricavano e scaricavano i camion. I caccia erano in agguato giorno e notte. Quando mitragliavano e bombardavano ci scherzavo sopra, ero incosciente allora. Mio padre aveva costruito un rifugio sotterraneo con le proprie mani, ma io non avevo paura. Forse per incoscienza, o forse per ignoranza».

Una volta finita la guerra, c'era davvero molta fame. «Devo dire che non ho mai sofferto troppo perché vivevo in campagna: potevamo coltivare la terra, mia mamma cucinava anche il pane fresco cotto a legna. Avevo però due paia di scarpe, un paio per la domenica...no, non torniamo più indietro». Anche se lo ricorda con l’innocenza di un bambino, è un periodo che è bene non ritorni mai più. «I giovani non possono capire, ma non hanno colpe, perché non hanno provato quello che ho vissuto io».
Il sogno del ciclismo
Tra la guerra e i cinquant'anni anni trascorsi a governare il flusso di auto dentro e fuori la rimessa del Carmine, nella vita di Franco c’è stato spazio anche per lo sport. «Sono arrivato a livelli agonistici come ciclista, ma ho dovuto smettere perché non riuscivo più a battere gli atleti che battevo un tempo. Qui in zona c’era un grande allenatore che ha fatto vincere i mondiali a quattro ciclisti. Ho conosciuto tutti i grandi atleti di quel tempo: Arsène Mersch, Antonio Maspes... tutti frequentavano questo ambiente». «Maspes ha vinto sette mondiali, sapete» aggiunge con una risata.
L’attività fisica lo ha anche aiutato a rimanere in salute: «Lo sport ti mette in riga, ti insegna la disciplina e la giusta alimentazione» dice indicandosi, come a voler sottolineare che il ciclismo gli ha permesso di restare in forma fino a novant’anni. Pare quasi un paradosso: un giovane vocato al brivido delle biciclette da competizione è divenuto un uomo la cui vita è trascorsa tra le auto di un garage cittadino.
L’autorimessa al tempo delle carrozze

E ancor prima nella sua memoria ci sono veicoli dal sapore quasi ottocentesco. «Mi sono fatto raccontare che prima questo era il deposito delle carrozze» racconta infatti Franco, volgendo la memoria ad un passato che ci sembra molto più che remoto. La storia dell’autorimessa in vicolo del Moro parte dal 1949. «A quei tempi mezzi di ogni tipo sfilavano dalla Statale che sfilava da Milano verso Est per arrivare fino in Russia. E transitavano anche di qui le carrozze. I viaggiatori portavano qui i cavalli a sera, riposavano e ripartivano la mattina. C'era anche una parte adibita alle stalle».
Quasi un altro mondo: «Allora dopo la guerra non c’erano tanti ponti: l'unico guado disponibile era a Chiesanuova, lì c’era il fiume Mella. Andavano dentro con le carrozze e con i cavalli quando il fiume non era in piena, l’unico momento possibile per attraversare». Ormai è solo un lontano ricordo. «Dopo si è trasformato il mondo: è arrivato il cemento, e con quello hanno cominciato a costruire tutto. Nel creare l’autorimessa, hanno alzato la struttura di due piani e hanno fatto la muratura in cemento armato». Da quando ci sono le auto, le carrozze non sono mai più venute, ma l’affetto di Franco per l’autorimessa è rimasto indelebile.
I legami
«Avevo assunto la proprietà con un altro socio, ma ora lui non c’è più». Come non c’è più l’amore di sempre: «Mia moglie è in paradiso da cinque anni, volevo molto bene anche a lei. Si chiamava Luisa, ci eravamo conosciuti qui all’autorimessa. A lei piaceva venire qui, stava in cassa. Avevamo tanto lavoro: forse più del doppio. Ora si prende cura di me sua sorella».

Franco ha vissuto una vita tutto sommato semplice, che però ha radici profonde nella storia del Carmine. I tempi cambiano, ma nella Brescia di un dì come in quella odierna c’è sempre spazio per un pizzico di gentilezza. E Franco ne è un esempio: «Questo è tutto – conclude il suo racconto -. Ma se un giorno avete bisogno di qualcosa e volete parcheggiare, entrate da là. Ve lo faccio gratis» dice, poi prende la sua bici e fa il giro dell’isolato. Perché si sa, un po’ di movimento non fa mai male.
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