«Bisogna insegnare che lasciarsi è parte del percorso di coppia»

Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente Fondazione Minotauro: «È necessaria una educazione identitaria»
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EDUCARE I GIOVANI ALLE RELAZIONI AFFETTIVE
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Le reazioni alla tragedia di Giulia Cecchettin, la ventiduenne uccisa da Filippo, suo ex e coetaneo, ha messo oltremodo in evidenza quello che Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, ha definito «sdoganamento del sè assoluto in virtù del quale ognuno si costruisce proprie rappresentazioni della realtà».

Professor Lancini, lei ritiene che la "patologia" che ha ucciso Giulia non si chiama patriarcato e che il tema sia molto più complesso.

Credo che oggi sia centrale e urgente portare nuove riflessioni su un tema più ampio che riguarda la costruzione dell’identità in adolescenza e la dimensione della coppia, anche della sua fine.

Dobbiamo lavorare nelle scuole sul contrasto alla violenza, fin dalla più tenera età, pensando ai cambiamenti di una società post-narcisistica che non è più quella patriarcale, evidentemente. Certo, il patriarcato è ancora presente, ma penso sia limitante attribuirgli la spiegazione di quanto è accaduto a Giulia Cecchettin e a Filippo Turetta.

Credo, infatti, che il tema non sia più il possesso patriarcale della donna da parte dell’uomo, ma la maggiore fragilità individuale e sociale. Viviamo in una società che è cambiata radicalmente e con una velocità enorme. Uno dei più grandi cambiamenti è anche quello della sessualità che ha perso centralità. Sotto questo profilo, l’adolescente non è più trasgressivo e il sesso non è più al centro della sua attenzione.

Alla luce di questo, lei crede che sia utile un’educazione sessuale nelle scuole finalizzata anche a contenere la violenza di genere?

Intanto, non sottolineiamo mai abbastanza che le nuove generazioni sono le prime a crescere con l’idea reale che l’atto sessuale non sia necessario alla sopravvivenza della specie. È evidente che è più che mai necessario ricostruire il senso identitario delle nuove generazioni e, dunque, il significato di coppia, di famiglia e di relazione con l’altro.

Direi, dunque, che oggi, più che di educazione affettiva e sessuale, sia necessaria una educazione identitaria. Come abbiamo affrontato la riorganizzazione dell’identità femminile (il fenomeno dilagante dell’anoressia ci ha fatto capire molte cose), ora è necessario farlo anche con quella maschile.

Ecco perché penso che i femminicidi non si possono oggi più leggere come se fossero delitti d’onore. Ecco perché oggi non è più sufficiente andare in classe e dire ai ragazzi che le donne hanno i loro stessi diritti. Il ritiro sociale maschile è equivalente alla spia dell’anoressia nelle ragazze. Si è lavorato sul femminile. Sul maschile siamo ancora agli stereotipi di genere, eppure anche i ragazzi sono cambiati.

Riorganizzare l’identità dei ragazzi significa anche insegnare a gestire la fine di un amore?

Sento dire, in questi giorni, che i giovani non hanno mai avuto frustrazioni e, per questo, non riescono a gestire la sofferenza quando vengono lasciati. Quando termina un rapporto di coppia si soffre, lo si sa. Tuttavia oggi questa sofferenza si trova davanti un vuoto e una fragilità identitaria tanto da scatenare una devastazione senza precedenti e una disperazione distruttiva e violenta. Del resto, se ti appoggi alla mente dell’altro e l’altro ti lascia, distoglie lo sguardo da te, sei disperato. Ci sono fragilità che si trasformano in violenza, più verso se stessi. Altre, purtroppo, no. Ricordando che ogni omicidio è un suicidio mancato.

Come lasciarsi senza farsi male?

Così come hai gestito la coppia e l’hai portata avanti, allo stesso modo devi saper decostruire il rapporto. Immaginare che la fine non sia un momento puntiforme, ma ancora parte del progetto di coppia: la fase in cui ci si lascia deve durare il tempo dell’elaborazione del significato. L’interruzione del legame è un momento delicato che può dare anche qualcosa di aggiuntivo. Questo bisogna insegnare ai ragazzi: educarli al legame di coppia, e alla sua fine. Bisogna insegnare che la dipendenza non è una malattia. La risposta è tenere i ragazzi nella mente, a scuola e in famiglia. Un’educazione identitaria che si basa sulla relazione, su adulti che ti ascoltano, ti pensano, si identificano, ascoltano gli aspetti veri nei racconti per capire chi sei.

Ricordando che l’educazione identitaria non si può fare senza integrare internet: allontanarlo è servito, e serve, solo ad aumentare il suo potere orientativo.

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