Assistenza a rischio per 400mila malati cronici bresciani, serve un nuovo modello

Serve un cambio di passo. «Un percorso obbligato, al di fuori del quale la medicina del territorio fallisce». A fronte di una crescita esponenziale del numero dei malati cronici, «un’evoluzione del sistema attuale è urgente e indifferibile perché la situazione è destinata a peggiorare nei prossimi anni, mettendo a rischio la sostenibilità del sistema sociosanitario». Oggi i malati cronici sono il 30% della popolazione bresciana e assorbono, da soli, l’80% dei costi sanitari diretti. L’85% dei ricoverati in ospedale è affetto da una o più malattie croniche. Questo significa che al Civile, uno degli ospedali pubblici più grandi della Regione, sono oltre sessantamila i ricoverati annui con almeno una malattia cronica.
Un’emergenza
In questo scenario, sul territorio il numero di medici di medicina generale titolari di un incarico a tempo determinato con il Servizio sanitario continua ad essere carente. Nella nostra provincia ne mancano 140, in base ai dati contenuti nell’ultimo bando di reclutamento pubblicato da Regione Lombardia. Questo non significa, tuttavia, che siano 140 gli ambulatori sguarniti. A lavorarci ci sono i medici supplenti, costituiti per lo più da laureati in formazione che stanno frequentando il corso triennale per poter operare a pieno titolo nell’assistenza primaria. Non mancano i disagi, ma quello che preoccupa di più gli operatori sanitari riuniti ieri nella sede dell’Ordine professionale non sono tanto i numeri, quanto i «saperi».
Sistema a rischio
«La tenuta del nostro sistema sociosanitario è fortemente a rischio, per questo noi tutti dobbiamo acquisire nuove competenze e nuovi modelli organizzativi che permettano di fornire un’assistenza sociale e sanitaria innovativa» spiega Germano Bettoncelli, coordinatore della Commissione Cultura dell’Ordine, tra i primi medici di famiglia a lavorare in un ambulatorio con altri colleghi e professionisti della salute. Precursore, con altri, di quelle che oggi si chiamano «aggregazioni funzionali territoriali», una quarantina in tutta la provincia con una ventina di medici ciascuna.

Il «rischio» di implosione «si potrà evitare se riusciremo a creare un continuum unico nell’assistenza, che deve essere senza cuciture e integrare i diversi livelli assistenziali e sociali». Ancora, «se riusciremo ad effettuare quel salto di qualità e di competenze, percorso obbligato al di fuori del quale la medicina del territorio fallisce» è stato sottolineato dai promotori del progetto.
Una sfida e una promessa: «Sia chiaro - afferma Bettoncelli - che i medici di famiglia continueranno ad esercitare nei loro ambulatori ed essere riferimento per gli assistiti. Le Case di Comunità hanno un altro ruolo, con il quale il medico si interfaccia. Non sono sostitutive». Un esempio: se un paziente ha bisogno di medicare un piede diabetico, oggi si affida all’infermiere presente nell’ambulatorio del medico, quando c’è, oppure al medico o ai poliambulatori ospedalieri.
«Il punto di riferimento deve restare l’ambulatorio che, per necessità come nel caso indicato, si appoggia alle Case di Comunità» aggiunge.
Cosa è sanitario, cosa sociale
«La pandemia ha evidenziato l’importanza dei servizi in capo ai Comuni. Da lì la riflessione che ci ha portato a chiederci cosa è sanitario, cosa sociale e cosa sociosanitario - spiega il medico -. Ed il sociale, per i malati cronici, è fondamentale. Dunque, l’assistenza deve tener conto di tutti questi aspetti. Ovvio? Non direi. Il tema dell’integrazione tra le amministrazioni locali e i servizi sanitari è più che attuale. Se non si fa medicina di popolazione, qualsiasi riforma è destinata a fallire».
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