Andrea, da Bagnolo alla terra degli Amish

Andrea Borella ha 34 anni ed è l'unico studioso italiano di una comunità che vive come duecento anni fa. Un'esperienza fatta per conoscere da dentro «una comunità che ogni vent'anni raddoppia di numero, perché ogni nucleo familiare è composto da padre, madre e otto-nove figli».
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Vivono nel passato. Fermi a due secoli fa. Lontano dalla civiltà, o da quella che noi definiamo civiltà. Niente mode, niente tecnologie. Fuori dal tempo. O almeno è così che li vediamo noi. «La verità è più complessa, come sempre. Loro non vivono nel passato. Vivono in modo semplice. Non rifiutano il presente, rifiutano la tecnologia, perché potrebbe portare danni. Non odiano niente e nessuno. Solo non vogliano essere influenzati dal progresso». Se lo dice lui, c'è da crederci. Lui si chiama Andrea Borella, ha trentaquattro anni ed è nato e cresciuto a Bagnolo Mella. Che ne sa lui di questi Amish? Ne sa, ne sa. Un po' di tempo fa ha preso la macchina del tempo e ha vissuto con loro. Otto mesi. Due terzi di un anno in mezzo ai campi verdi della contea di Lancaster, Pennsylvania. Per conoscere da dentro «una comunità che ogni vent'anni raddoppia di numero, perché ogni nucleo familiare è composto da padre, madre e otto-nove figli».
Andrea è un antropologo. Vive fra Bagnolo, Milano e Torino, dove ha svolto il dottorato di ricerca in Scienze Umane. Nessuno prima di lui in Italia aveva scritto un libro su questa gente. Il suo lavoro s'intitola semplicemente «Gli Amish» ed è stato pubblicato da Xenia Edizioni (126 pagine, 6.50 euro). Un libro che è figlio legittimo di quegli otto mesi «intensi e bellissimi vissuti tra loro». Tra: Andrea sottolinea spesso questa preposizione: tra, a indicare un'immersione quasi totale dentro a un oceano sconosciuto e affascinante. «Mi hanno rispettato tutti, fin dal primo momento. Ripeto, sono gente tollerante. Certo, stando con loro è giusto rispettare le loro tradizioni. Avevo con me il computer, ad esempio, ma lo accendevo solo in camera. Senza disturbare. Mai davanti a loro. Non è giusto».
Domanda secca: come si entra in contatto con gli Amish? «Io ho avuto fortuna. Sono stato introdotto da un grande studioso della loro cultura. La famiglia che mi ha accolto è peraltro moderna. Relativamente, chiaro. Pensi che Peter una volta è venuto a prendermi col calesse: aveva il navigatore satellitare. Ripeto: non è la tecnologia in sè che odiano. Il gps è utile, quindi si tollera. Ma senza eccessi».
Discorso diverso per tivù e telefonino. «Quelli no. Perché porterebbero una modernità che si scontrerebbe con il loro credo. Disturberebbero la quiete familiare». Sono contadini, ma non usano i trattori. Fanno tutto a mano. «Non servirebbe più l'apporto umano. Per loro la terra deve essere lavorata dall'uomo. Anche i bambini aiutano. Questo è uno dei due aspetti che li rende antipatici agli altri americani». L'altro è il rifiuto della guerra. «Non combattono, non entrano nell'esercito. Sono un popolo pacifico». E consapevole. Gli Amish non sono obbligati a essere Amish. Dopo i quattordici anni vivono per un po' come nel resto del mondo,
dopodiché possono abbandonare la comunità.
Lo fa solo uno su dieci.
Carlos Passerini
c.passerini@giornaledibrescia.it

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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