Andare a Bellagio pur di non lavorare

«E alùra?» - «Alùra só dré a ’ndà a sgòbbo, ma èncö pròpe n’ó mìa l’àse». Sarà l’aria impigrita che vibra ancora del Ferragosto, sarà che anch’io oggi preferirei starmene a dormicchiare (òia de laorà, sàltem adòs), sta di fatto che lo scambio di battute tra amici non più giovanotti che intercetto mentre pedalo in centro mi colpisce come una schioppettata.
Oltre alla confidenza gergale che li porta a definire «sgobbo» il lavoro, i due mi regalano due chicche. Una è la costruzione «só dré a...» che corrisponde all’italiano «sto... più gerundio». Chiaramente qui sarebbe un errore tradurre letteralmente l’avverbio bresciano «dré» con «dietro». Da dove arriva allora quest’uso così nostrano? Non so, probabilmente sbaglio, ma a me risuona insistentemente nell’orecchio il gallicismo «je suis en train de...» che Oltralpe è documentato fin dal Duecento e che corrisponde proprio all’italiano «sto...». Forse quell’«en train» è arrivato da noi con le numerose dominazioni francesi e poi ha deciso di rimanere qui sedimentandosi per assonanza come «dré». Chissà.
La seconda chicca è nascosta nella perifrasi «’ìghen l’àse», che fa ricorso alla parola «agio» e che significa «essere bendisposto a...». Non è un caso che in bresciano «andare adagio» si suol dire «’ndà a belàse» (letteralmente «andare a bell’agio», proprio come il nome del paese sul Lago di Como o come il nostro Fenili Belasi). E per andare ancora più adagio? Semplice, basta «’ndà a belasìne». Insomma, già l’avete capito: tutte queste righe pur di non lavorare. Òia de laorà sàltem adòs, che mé ma spòste...
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